Santi & Sposi
APRILE
Sommario
Beati Anacleto Gonzalez Flores e 3 compagni Laici e martiri
Beato Giovanni Bretton Martire
Beati Ezechiele Huerta Gutiérrez e Salvatore Huerta Gutiérrez Laici e martiri
Beata Aletta Madre di s. Bernardo di Chiaravalle
San Brychan di Brecknock Re di Gwynedd.
Beato Agostino Jeong Yak-jong Padre di famiglia, catechista e martire
San Terenzio e compagni Martiri di Cartagine
Beata Ida di Boulogne Contessa
Sant'Agatonica e compagni Martiri
Santa Tomaide d'Alessandria Martire
San Valeriano Martire sposo di Santa Cecilia di Roma
Sante Dominica (Domnina) e le sue figlie Bernica e Prosdoca Martiri
Sante Anastasia e Basilissa Martiri
Santi Ottato, Engrazia, Caio, Crescenzio e compagni Martiri di Saragozza
Beati Pietro Delepine, Giovanni Menard e ventiquattro compagne Martiri
Beata Chiara Gambacorti Domenicana
Beata Maria dell'Incarnazione (Barbara Avrillot Acarie) Carmelitana
Beato Idesbaldo delle Dune Abate
Beato Francesco Page Gesuita, martire
Santa Sara di Antiochia Martire
San Leonida Martire, padre di Origene
Sant'Alessandra e compagni Martiri a Nicomedia
Beato Adalberto Conte di Ostrevant
Beata Elena Valentini da Udine Religiosa
Santa Salomè Madre degli apostoli Giacomo e Giovanni
Santa Hunna Vedova in Alsazia – patrona delle lavandaie
Beata Alda (Aldobrandesca) da Siena Vedova
Beati Lucchese e Buonadonna Sposi, terziari francescani
San Vitale e Santa Valeria sposi e Santi Gervasio e Protasio i loro figli Martire
Sant'Antonio Kim Song-u Catechista e martire
Beata Maria dell’Incarnazione Guyart Vedova e fondatrice
San Quirino Martire, venerato a Neuss
Beata Ildegarda (Hildegarda) di Kempten Regina
Oggi abbiamo veramente un bel gruppo di santi. Iniziamo con dei martiri della "Guera Cristera" Messicana, proseguiamo con un altro martire Inglese e chiudiamo con una che "ebbe molti mariti" (una prostituta)...
+ Guadalajara, Messico, 1 aprile 1927
Fondatore dell'Associazione cattolica della gioventù messicana (Acjm) di Guadalajara e dell'Unione Popolare, Anacleto González Flores, meglio noto come «il maestro Cleto», fu un leader laico messicano assai famoso tra il 1915 e il 1927: la predicazione a favore del pacifismo e della non violenza nel periodo della «Guerra Cristera» (1926-1929), gli guadagnò l'appellativo di «Gandhi messicano». Sposato e padre di due figli, era nato a Tepatitlán, Jalisco, il 13 luglio 1888. Dopo essere stato seminarista svolse i lavori più disparati, prima di laurearsi in Giurisprudenza nel 1921. Nel 1925 ricevette da Pio XI la Croce «Ecclesia et Pontifice» in riconoscimento alla sua opera in difesa della religiosità dei fedeli messicani. Anacleto tentò di evitare di legare l'Unione Popolare alla Lega nazionale per la difesa della libertà religiosa, che aveva dichiarato guerra al Governo di Calles, persecutore dei cristiani, già dal 1926. Dovette tuttavia accettare che la sua organizzazione passasse alla lotta armata, ma ciò gli costò l'arresto il 31 marzo 1927 e la morte il giorno successivo assieme a tra compagni. (Avvenire)
Nel contesto della persecuzione religiosa messicana, provocata dalla nuova costituzione promulgata nel 1917, parecchi cristiani subirono il martirio e tra essi rifulge questo gruppo comprendente otto fedeli laici dell’arcidiocesi di Guadalajara, tutti cristiani integerrimi attivamente impegnati nella difesa della libertà religiosa e della Chiesa, che furono uccisi per la loro fede cristiana tra il 1927 e il 1928. Il 1° aprile 1927 furono uccisi Anacleto Gonzalez Flores e tre giovani dell’Azione Cattolica. Il martirio di questi Servi di Dio fu riconosciuto il 22 giugno 2004 da Giovanni Paolo II e furono poi beatificati il 20 novembre 2005, sotto il pontificato di Benedetto XVI.
Anacleto Gonzalez Flores Padre di famiglia, avvocato, il “Gandhi messicano”
Tepatitlán, Messico, 13 luglio 1888 - Guadalajara, Messico, 1° aprile 1927
Fondatore dell’Associazione Cattolica della Gioventù Messicana (ACJM) di Guadalajara, questo martire della persecuzione religiosa messicana fondò anche l’Unione Popolare, conosciuta come “U”, movimento operaio, femminile, contadino e popolare, dedito alla promozione della catechesi ed oppositore attivo del governo locale e di quello federale a causa delle misure repressive in materia di libertà religiosa. Anacleto González Flores, meglio noto come “il maestro Cleto”, fu un leader laico assai famoso tra il 1915 e il 1927, anno in cui fu ucciso dall’esercito federale, acerrimo persecutore dei cattolici messicani, agli ordini del Presidente della Repubblica Plutarco Elías Calles. La predicazione in favore del pacifismo e della non violenza nel periodo della “Guerra Cristera” (1926-1929), guadagnò ad Anacleto González Flores l’appellativo di “Gandhi messicano”.
Sposato e padre di due figli, era nato a Tepatitlán, Jalisco, il 13 luglio 1888, in condizioni assai umili, figlio di un tessitore che combatteva contro la dipendenza dall’acool. Fu seminarista e postulante presso i seminari di San Juan de los Lagos e Guadalajara. Svolse poi lavori più disparati, prima di laurearsi finalmente in Giurisprudenza nel 1921, a 33 anni. Nel 1925 “il maestro Cleto” ricevette dal pontefice Pio XI la Croce “Ecclesia et Pontifice” in riconoscimento alla sua opera di evangelizzazione a favore dei più bisognosi ed in difesa della religiosità dei fedeli messicani.
Anacleto González Flores tentò di evitare fino all’ultimo di legare l’Unione Popolare alla Lega Nazionale per la Difesa della Libertà Religiosa, che aveva dichiarato guerra al Governo di Calles già dal 1926. Trascinato dagli eventi, dovette tuttavia accettare che la sua organizzazione passasse alla lotta armata, ma ciò gli costò l’arresto il 31 marzo 1927 e la morte il giorno successivo, venerdì 1° aprile, all’età di 38 anni. I suoi aguzzini lo appesero per i pollici, dopodiché gli provocarono delle ferite con la punta della baionetta affinché rivelasse il nascondili dell’arcivescovo di Guadalajara e degli altri leader della rivoluzione “cristera”. Infine la baionetta gli penetrò il cuore e spirò. I suoi compagni di lotta e di martirio vennero fucilati nel cortile della medesima prigione.
I resti mortali del Beato Anacleto riposano nel Santuario di Guadalupe di Guadalajara, ove accorrono parecchi fedeli spinti da venerazione nei confronti di questo martire della fede cattolica in Messico.
José Dionisio Luis Padilla Gómez Giovane dell’Azione Cattolica, asceta e mistico
Guadalajara, Messico, 9 dicembre 1899 - 1° aprile 1927
José Dionisio Luis Padilla Gómez nacque a Guadalajara il 9 dicembre 1899. Ricevette un’accurata educazione dalla sua famiglia distinta e cristiana. Nel 1917 entrò nel seminario conciliare di Guadalajara, ma nel 1921 lo abbandonò avendo alcuni dubbi circa la sua vocazione. Abbandonò inoltre anche l’attività di insegnante, per dedicarsi ad impartire lezioni gratuite ai bambini e giovani più poveri. Socio fondatore e membro attivo dell’Associazione Cattolica della Gioventù Messicana (ACJM), vi svolse un’intensa opera di apostolato, in particolare nel campo della promozione sociale. Era solito praticare apertamente la sua pietà: in casa, nelle strade ed in chiesa. Fu fervente devoto della Vergine Maria.
Quando scoppiò la persecuzione religiosa nel suo paese, si affiliò all’Unione Popolare per partecipare con mezzi pacifici alla difesa della religione cattolica. Più volte espresse il desiderio di seguire Gesù sino al dolore, alla sofferenza ed al dono totale della propria vita. Il 1° aprile 1927, alle due di mattina, la sua casa accerchiata da un gruppo di soldati dell’esercito federale, che la saccheggiarono e poi arrestarono Luis insieme all’anziana madre ed una sorella.
Luis fu, condotto alla caserma Colorado, lungo il tragitto dovette sopportare colpi, insulti e vessazioni. Poco dopo furono arrestati e condotti alla stessa caserma anche Anacleto González Flores ed i fratelli Jorge, Ramón e Florentino Vargas González. Capendo che era ormai imminente la sua fine, Luis espresse il desiderio di confessarsi. Il suo compagno di apostolato e di prigione, Anacleto González Flores, lo confortò affermando: “No, fratello, non è più l’ora di confessarsi, ma di chiedere perdono e di perdonare. È un Padre e non un giudice che ti attende. Il tuo stesso sangue ti purificherà”. I quattro coraggiosi compagni di prigionia recitarono dunque l’Atto di Dolore. Mentre Luis, inginocchiato, offriva a Dio la sua vita in fervente preghiera, i carnefici lo uccisero con le armi. Il giovane aveva solo ventisei anni.
Jorge Ramon Vargas González Giovane dell’Azione Cattolica
Ahualulco de Mercato, Messico, 28 settembre 1899 - Guadalajara, Messico, 1° aprile 1927
Jorge Ramon Vargas González nacque ad Ahualulco il 28 settembre 1899, figlio di un onorato medico e di una donna coraggiosa, integra e compassionevole, quasi paragonabile alla celebre madre dei fratelli Maccabei. Quando ancora era bambino, la famiglia si trasferì a Guadalajara. Qui Jorge condivise gli aneliti e le preoccupazioni di quanti soffrivano a causa della persecuzione religiosa in atto nel suo paese. Nel 1926, quando lavorava per la Compagnia Idroelettrica, la sua casa funse da rifugio per parecchi sacerdoti perseguitati. Alla fine di marzo del 1927 la famiglia Vargas Gonzáles accolse in casa Anacleto González Flores, sapendo benissimo quanto potesse costare loro questo gesto. Anacleto divise la camera proprio con Jorge.
Improvvisamente, il 1° aprile 1927, tutti tutti gli abitanti della casa fra vessazioni e soprassalti furono arrestati e trasferiti alla caserma Colorado. I fratelli Florentino, Jorge e Ramón Vargas González furono rinchiusi nella stessa cella, colpevoli appunto di aver dato ospitalità ad un cattolico perseguitato. Alcune ore dopo furono rinchiusi nella cella accanto alla loro Luis Padilla Gómez ed Anacleto González Flores. Jorge, attraverso le sbarre, fece capire a Luis Padilla che sarebbero stati fucilati entro breve. Si lamentò quindi per non poter ricevere la comunione quel venerdì, ma suo fratello Ramón replicò: “Non temere, se moriremo, il nostro sangue laverà le nostre colpe”. L’integrità d’animo dei fratelli non venne mai meno. Un ordine dell’ultimo momento fece separare Florentino dagli altri.
La morte di Jorge fu senza dubbio preceduta da torture, giacchè il suo corpo inerme presentava una spalla slogata e contusioni e lividi sul volto. La cosa sicuramente certa è che, giunta l’ora, tenendo un crocifisso sul petto, ricevette la scarica congiunta del 201° battaglione che eseguì senza pietà la sentenza. Durante le esequie, la madre delle vittime, stringendo fra le sue braccia Florentino, il figlio superstite, esclamò: “Figlio mio! Quanto è stata vicina a te la corona del martirio! Devi essere più buono per meritarla”. Il padre, venuto a conoscenza di come erano morti gli altri suoi due figli, constatò: “Ora so che non sono le condoglianze che mi devono dare, ma felicitazioni perché ho la fortuna di avere due figli martiri”.
Ramón Vicente Vargas González Giovane dell’Azione Cattolica
Ahualulco de Mercato, Messico, 22 gennaio 1905 - Guadalajara, Messico, 1° aprile 1927
Ramón Vicente Vargas González nacque ad Ahualulco il 22 gennaio 1905, settimo di undici fratelli. Tre caratteristiche lo distinsero dagli altri: il colore rosso dei capelli, che gli valse il soprannome di “Colorado”, l’elevata statura e la giovialità. Stabilitosi con la famiglia a Guadalajara, Ramón decise di seguire le orme paterne entrando nella facoltà di Medicina, ove si distinse per il suo buon umore, il suo cameratismo e la sua chiara identità cattolica. Non appena possibile, si occupò gratuitamente della salute dei poveri. A ventidue anni, ormai prossimo a concludere gli studi universitari, accolse in casa Anacleto González Flores, che subito notò le doti di Ramón e gli propose di lavorare negli accampamenti della resistenza come infermiere. Il giovane gli rispose: “Per lei faccio qualsiasi cosa, Maestro, ma darmi alla macchia no”.
La mattina del 1° aprile 1927 un gruppo di poliziotti prese possesso della casa dei Vargas González, la perquisirono ed arrestarono quanti vi abitavano. Ramón mantenne la calma nonostante la sua indignazione. Approfittando del tumulto, riuscì a fuggire in strada senza che i suoi sequestratari se ne accorgessero, ma poco dopo tornò sui suoi passi e si consegnò loro volontariamente.
I tre fratelli furono destinati alla morte, ma per mitigare la sentenza il generale di divisione Jesús María Ferreira propose di liberare il minore. L’indulto riguardava quindi Ramón che però, senza ammettere repliche, cedette il posto a Florentino. Prima della fucilazione, Ramón fece il segno della croce.
Autore: Fabio Arduino
Bretton, Inghilterra, 1527 circa – York, Inghilterra, 1 aprile 1598
Il laico coniugato John Bretton è stato beatificato il 22 novembre 1987.
Martirologio Romano: A York in Inghilterra, beato Giovanni Bretton, martire, che, padre di famiglia, per la sua perseveranza nella fedeltà alla Chiesa di Roma, fu più volte ammonito durante il regno di Elisabetta I e, infine, sotto falsa accusa di sedizione, morì strangolato.
Una prostituta…
Il racconto della sua vita confina spesso con la leggenda. Di sicuro era nata nel IV secolo ad Alessandria d'Egitto e si guadagnava da vivere facendo la prostituta. Fuggita da casa a 12 anni, a 29 si imbarcò su una nave di pellegrini diretta in Terra Santa. Arrivata a Gerusalemme, volle partecipare alla festa dell'Esaltazione della croce al Santo Sepolcro. Prima di entrare però fu come trattenuta da una forza invisibile mentre una voce dentro di lei diceva: «Tu non sei degna di vedere la croce di colui che è morto per te tra dolori inenarrabili». Convertitasi, andò a vivere solitaria nel deserto oltre il Giordano dove restò per 47 anni. Là fu trovata dal monaco Zosimo che le porse la santa Comunione, promettendole di tornare l'anno successivo. Quando fece ritorno la trovò però morta. Era probabilmente il 430. Secondo la tradizione la tomba sarebbe stata scavata da un leone con i suoi artigli. (Avvenire)
Patronato: Prostitute pentite
Etimologia: Maria = amata da Dio, dall'egiziano; signora, dall'ebraico
Emblema: Ampolla d'unguento
Martirologio Romano: In Palestina, santa Maria Egiziaca, che, famosa peccatrice di Alessandria, per intercessione della beata Vergine nella Città Santa si convertì a Dio e condusse in solitudine al di là del Giordano una vita di penitenza.
Cercare di riassumere la vita di Maria, che si presenta come una composizione di Sofronio, vescovo di Gerusalemme, attribuzione contro la quale non si è potuto portare alcun argomento decisivo, è farle perdere tutto il suo sapore, la qualità principale per cui questo racconto ha potuto avere qualche interesse; in effetti il suo carattere storico è quasi inesistente anche se, come si dirà piú oltre, è stato costruito intorno ad un iniziale nucleo reale: l'esistenza di una tomba di una santa solitaria palestinese, forse proprio di nome Maria.
Zosimo, ieromonaco di qualche laura palestinese, va, secondo l'abitudine, a trascorrere una parte della Quaresima nelle profondità del deserto. Credendo dapprima ad un'allucinazione si rende ben presto conto della realtà della sua visione: una forma femminile cui l'ardore del sole ha disseccato la pelle, senza altra veste che la sua capigliatura bianca come la lana. Vedendo in questo incontro la volontà della Provvidenza, Zosimo cerca di avvicinarla e vi riesce solo sulla riva di un torrente, ma la sua interlocutrice non consente ad iniziare la conversazione prima che il monaco le abbia lanciato il suo mantello per coprire la sua nudità. Dopo essersi reciprocamente benedetti si mettono a pregare e Zosimo vede Maria che levita nell'aria. Il monaco dubita allora di trovarsi di fronte ad una macchinazione diabolica, ma Maria lo tranquillizza chiamandolo per nome. Incitata da lui Maria comincia a raccontare la sua vita.
Egiziana di origine, a dodici anni era fuggita dalla casa paterna per condurre a suo agio ad Alessandria la vita di peccato che l'ardore dei suoi sensi reclamava. Per diciassette anni visse in questo stato. Un giorno, vedendo dei pellegrini che s'imbarcavano per Gerusalemme, spinta dalla curiosità ed in cerca di nuove avventure, si unì al gruppo, convinta che il suo fascino le avrebbe permesso facilmente di pagarsi il prezzo del viaggio. I suoi piaceri ebbero termine a Gerusalemme il giorno della festa della Croce: ella voleva infatti come gli altri, entrare nella basilica, ma ogni volta che tentava di varcarne la soglia una forza interiore glielo impediva.
A questo punto sentì il richiamo del Giordano.
Uscendo dalla città uno sconosciuto le diede tre pezzi d'argento che le sarebbero serviti. ad acquistare pani che dovevano essere il suo ultimo nutrimento terrestre duratole per almeno diciassette anni. Giunta a sera sulle rive del Giordano ed avendo scorto il santuario di S. Giovanni Battista, ella vi fece una visita per pregare e quindi si recò al fiume per purificarsi. In seguito ricevette la Comunione eucaristica e con questo viatico iniziò il suo lungo cammino nel deserto cammino che al momento dell'incontro con Zosimo durava già da quarantasette anni.
Giunta al termine del suo racconto autobiografico Maria pregò Zosimo di ritornare l'anno dopo, la sera del giovedì santo in un luogo che ella gli indicò sulle rive del Giordano, per portarle l'Eucarestia. Zosimo fu fedele all'appuntamento e Maria traversò miracolosamente il fiume per raggiungere il monaco. Dopo essersi comunicata ed avere rinnovato l'appuntamento per l'anno successivo nel luogo del primo incontro presso il torrente, Maria riprese la sua marcia nel deserto.
Tornando l'anno dopo sulla riva del torrente Zosimo si credette da principio solo, poi scorse a terra il corpo di Maria morta, rivestito ancora del vecchio mantello da lui datole due anni prima. Una scritta sulla terra gli rivelò alcuni aspetti del mistero: "padre Zosimo sotterra il corpo dell'umile Maria; restituisci alla terra ciò che è della terra, aggiungi polvere a polvere ed in nome di Dio prega per me; sono morta nel mese di pharmouti, secondo gli egiziani, che corrisponde all'aprile dei Romani, la notte della Passione del Salvatore, dopo aver partecipato al pasto mistico".
Zosimo capì che Maria era già morta da un anno, il giorno stesso in cui le aveva dato la s. Comunione. Si mise subito all'opera per seppellire il corpo di lei, ma non aveva altro utensile che un pezzo di legno; aveva appena cominciato a scavare che ebbe la sorpresa di trovarsi a lato un leone che si dimostrò subito in grande familiarità con lui e che in breve tempo, su richiesta del monaco, scavò una fossa sufficiente a deporre Maria. Dopo aver ricoperto di terra il corpo della santa, Zosimo ritornò al suo monastero, dove raccontò tutta la storia all’Abbà Giovanni l'egumeno e ai suoi confratelli per loro edificazione.
Tutti sono concordi nel vedere in questa storia soltanto una pia leggenda, come ha scritto H. Delehave: "una creazione poetica, senza dubbio fra le più belle di quante ci abbia lasciato l'antichità cristiana".
Questa creazione letteraria, tuttavia, non è tutta pura invenzione, essa non è che lo sviluppo di una tradizione palestinese che vide la luce intorno alla tomba di una solitaria locale esistita realmente. In effetti, nella Vita di Ciriaco, opera di Cirillo di Scitovoli, l'autore racconta di una sua passeggiata nel deserto in compagnia di un certo Abbà Giovanni.
F. Delmas, dopo un accurato controllo tra la Vita di Maria opera di Sofronio e, contemporaneamente la Vita di Paolo di Tebe, scritta da s. Girolamo (in cui la parte di Zosimo è sostenuta da un Antonio), ed il racconto del monaco Giovanni nella l'ita di Ciriaco, così riassume le conclusioni del suo studio: "1) il quadro generale della vita di s. Maria Egiziaca mi sembra ricalcato sulla vita di s Paolo eremita. 2) la vita di s. Maria Egiziaca mi sembra non essere altro che uno sviluppo retorico della vita di Maria inserita negli Atti di s. Ciriaco".
Giovanni Mosco, cronologicamente posteriore a Cirillo, presenta uno svolgimento diverso della leggenda di Maria, ma malgrado le divergenze, le grandi linee dei due racconti sono abbastanza simili perché si possa concludere per l'unicità del fatto originario al quale entrambi fanno riferimento. Sofronio, di cui abbiamo già sottolineata la dipendenza da Cirillo, ha anche preso in prestito qualche dettaglio da Giovanni Mosco, in particolare la localizzazione della scoperta di Maria nel deserto al di là del Giordano.
Non minore fu la popolarità di Maria in Occidente.
Culto liturgico.
I sinassari bizantini venerano Maria al 1° aprile, qualcuno al 3 o al 4 dello stesso mese. Questa data è in relazione con il supposto giorno della morte di Maria, un giovedì santo nel mese di pharmouthi. A1 1° aprile Maria figura anche nel Typikon della laura di S. Saba. I calendari palestino-georgiani fanno di lei menzione il 1°, il 4 o il 6 dello stesso mese. Il Sinaiticus 34 (X sec.) la nomina per la terza volta il 2 dicembre. Qualche calendario siriaco la menziona ancora il 1° aprile. Il Sinassario Alessandrino di Michele, vescovo di Atr?b e Mal?g le dedica una lunga notizia proveniente dalla Vita di Sofronio al 6 barmudah e la traduzione geez di questo Sinassario ha conservato la stessa notizia al giorno corrispondente del 6 miyaziya. Il Calendario marmoreo di Napoli menziona Maria al 9 aprile. I primi martirologi occidentali medievali la ignorano e, a quanto sembra, Usuardo fu il primo ad introdurla al 2 aprile nel suo Martirologio con lo stesso breve elogio di s. Pelagia all'8 ottobre Pietro de' Natalibus le ha dedicato un lungo capitolo de] suo Catalogus.
Il 2 aprile divenne quindi la data tradizionale della commemorazione di Maria in Occidente.
Autore: Joseph-Maria Sauget
+ Mezquitán, Messico, 3 aprile 1927
Nel contesto della persecuzione religiosa messicana, provocata dalla nuova costituzione promulgata nel 1917, parecchi cristiani subirono il martirio e tra essi rifulge questo gruppo comprendente otto fedeli laici dell’arcidiocesi di Guadalajara, tutti cristiani integerrimi attivamente impegnati nella difesa della libertà religiosa e della Chiesa, che furono uccisi per la loro fede cristiana tra il 1927 e il 1928. Il 3 aprile 1927 furono uccisi i due fratelli Ezequiel Huerta Gutiérrez e Salvador Huerta Gutiérrez. Il martirio di questi Servi di Dio fu riconosciuto il 22 giugno 2004 da Giovanni Paolo II e furono poi beatificati il 20 novembre 2005, sotto il pontificato di Benedetto XVI.
José Luciano Ezequiel Huerta Gutiérrez Padre di famiglia
Magdalena, Messico, 7 gennaio 1876 - Mezquitán, Messico, 3 aprile 1927
José Luciano Ezequiel Huerta Gutiérrez nacque a Magdalena il 6 gennaio 1876. Sposo e padre esemplare di una numerosa prole, possedeva un magnifica voce da tenore drammatico. Era inoltre organista di professione. Assai devoto all’Eucaristia, riceveva spesso la Comunione. Molto caritatevole, condivideva i suoi beni con i più bisognosi.
Fu arrestato la mattina del 2 aprile 1927, poiché aveva due fratelli presbiteri, Eduardo e José Refugio, molto rispettati a Guadalajara ed aveva appena visitato la camera ardente allestita per Anacleto González Flores. Nelle celle del comando della polizia lo torturarono sino a fargli perdere conoscenza. Quando rinvenne, espresse il suo dolore cantando l’inno eucaristico “Che viva il mio Cristo, che viva il mio Re”.
All’alba del giorno seguente, fu portato insieme a suo fratello nel cimitero municipale. Lì si formò il plotone per l’esecuzione. Ezequiel disse a suo fratello Salvador: “Li perdoniamo, vero?”. “Sì, che il nostro sangue serva per la salvezza di molti”, rispose Salvador. Una scarica di proiettili pose fine al loro dialogo. La moglie di Ezequiel, vicinissima al luogo dell’esecuzione, udì gli spari senza però sapere chi fossero le vittime. Riunì comunque tutti i suoi figli e disse: “Figli miei, recitiamo il rosario per queste povere persone che hanno appena fucilato”.
José Salvador Huerta Gutiérrez Padre di famiglia
Magdalena, Messico, 18 marzo 1880 - Mezquitán, Messico, 3 aprile 1927
José Salvador Huerta Gutiérrez nacque a Magdalena il 18 marzo 1880. Meccanico tornitore per vocazione, si dedicò interamente a questo mestiere, divenendo uno dei più competenti meccanici di Guadalajara. Fervido amante di Gesù Sacramentato, partecipava quotidianamente all’Eucaristia ed all’adorazione. La sua condotta quale figlio, sposo e padre fu sempre esemplare. Possedeva un particolare intuito dinanzi al pericolo, che affrontava con singolare forza. Al principio del 1927, con la persecuzione religiosa, la situazione divenne insostenibile per i cattolici. I chierici vennero perseguitati senza tregua in quanto ritenuti istigatori della resistenza armata. Il 2 aprile 1927, consumato l’assassinio di Anacleto González e dei suoi tre compagni, Salvador andò al cimitero per rendergli l’estremo saluto.
Tornando alla sua officina, trovò ad attenderlo agenti di polizia che lo arrestarono. Nella caserma generale fu sottoposto a crudeli torture e lo appesero per i pollici. I carnefici volevano scoprire ove si trovavano i sacerdoti Eduardo e José Refugio. Esanime, fu gettato in una cella. All’alba del giorno seguente, fu condotto nel cimitero di Mezquitán con suo fratello Ezequiel. Di fronte al plotone di esecuzione chiese una candela accesa per illuminare il suo petto scoperto. Urlò: “Viva Cristo Re e la Vergine di Guadalupe! Sparate, muoio per Dio, che amo molto”.
Autore: Fabio Arduino
Fu così che dimostrammo che la santità è "ereditaria"... o comunque "contagiosa" e si trasmette in famiglia
XI-XII sec.
Etimologia: Aletta = veritiera, dal greco
Nacque da Bernardo, signore di Montbard di nobile famiglia discendente dai duchi di Borgogna, e da Umberga (Umbelina) di Ricey, nella seconda metà del sec. XI, forse verso il 1070. A quindici anni andò sposa a Tescelino il Sauro, signore di Fontaine-les-Dijon, uomo di grande virtù. Dal matrimonio nacquero sette figli (Guido, Gerardo, Bernardo, Andrea, Bartolomeo, Nivardo, Ombelina) che, al dire dei biografi, Aletta generò non tanto al marito, quanto a Dio: tutti, infatti, entreranno nel chiostro, attratti dall'esempio del terzo di essi, il grande Bernardo. Aletta fu sposa e madre esemplare, che rese i figli perfetti cristiani ed eccellenti gentiluomini. Grande fu anche la sua carità verso i poveri: passava di casa in casa alla ricerca dei più bisognosi e dei malati che poi soccorreva generosamente, non rifuggendo dai servizi più umili. Nel giorno della festa di s. Ambrosiniano, patrono del villaggio, A. invitava nel castello tutti i sacerdoti accorsi alla festa trattenendoli a mensa. E fu proprio nella festa di s. Ambrosiniano, il 1° settembre di un anno imprecisato, tra il 1105 e il 1110, che Aletta rese, ancor giovane, la sua santa anima a Dio. L'abate Geranno di S. Benigno di Digione ne accolse il corpo nella cripta della chiesa del suo monastero: sul sarcofago fece scolpire le immagini dei figli. I biografi dicono che per cinque anni Aletta apparve spesso al figlio Andrea, e che anche s. Bernardo fu sostenuto nel momento della conversione dall'apparizione della madre.
Nel 1250 il corpo di Aletta fu trasferito dall'abate Stefano di Lexington a Chiaravalle: il 19 marzo 1251 fu deposto nella chiesa della celebre abbazia presso l'altare, dove riposò fino alla Rivoluzione Francese, quando, distrutto il monastero, anche le reliquie di Aletta furono disperse.
Venerata affettuosamente dal popolo, specialmente in Borgogna, Aletta è stata accolta in parecchi menologi e calendari cistercensi col titolo di beata: nell'ultimo (del 1952) tale titolo è stato sostituito con l'altro di venerabile. Vi è ricordata due volte: il 19 marzo giorno della traslazione e il 1° settembre, giorno della morte. I Bollandisti l'hanno messa tra i «praetermissi» al 4 apr., dichiarando di voler attendere il giudizio della Chiesa che, finora, non si è pronunziata. La figura soave di Aletta resta indissolubilmente legata a quella del suo grande figlio.
Autore: Benedetto Cignitti Fonte:Enciclopedia dei Santi
m. 342 circa
Martirologio Romano: A Seleucia in Persia, santa Ferbuta, vedova, che fu sorella del vescovo san Simeone e sotto il regno di Sabor II subì insieme alla sua serva il martirio.
Un santo che ebbe 24 figli e figlie tutti venerati come santi!!!
V secolo
Figura assai singolare, nel vasto panorama di santità fiorita presso le corti inglesi del primo millennio cristiano, è costituita da San Brychan di Brecknock, figlio del re Anlach di Garthmadrun, dal quale ereditò poi il trono di Gwynedd. Visse nel V secolo. Da bambino ebbe forse le lentiggini, come ricorda il suo nome. Fu mandato dai genitori in Irlanda e poi in Galles. All’età di quattro anni fu affidato ad un sant’uomo di nome Drichan, sulle rive del fiume Ysgir, e tre anni dopo poteva già considerarsi abbastanza istruito per affrontare il mondo. Il suo maestro, ormai quasi cieco, in seguito ad uno strano episodio predisse un futuro prospero e felice per il giovane Brychan.
Alcuni anni dopo scoppiò la guerra fra il re Anlach e Banadl, re irlandese che usurpava Powys. Si rese necessario inviare il principe Brychan quale ostaggio per difendere le terre occupate, ma egli fu trattato bene alla corte di Irishman e si innamorò pazzamente di Banhadlwedd, figlia del re. Dalla sua irregolare relazione, prima che egli facesse ritorno a Gathmadrun, nacque il suo figlio primogenito, Canog (Cynog), morto poi martire presso Merthyr-Cynog durante una invasione barbarica approssimativamente nel 492 e venerato come santo al 7 ottobre.
Nel frattempo morì il re Anlach ed i nobili elessero al trono Brychan, il cui regno fu trionfante, come aveva predetto Drichan, tanto che i sudditi in suo onore vollero mutare il nome del regno in Brycheiniog. Fu un sovrano sempre fedele alla Chiesa ed ai suoi insegnamenti. Si sposò per ben tre volte e secondo la tradizione ebbe in tutto ventiquattro figli e figlie venerati tutti come santi. L’iconografia è solita infatti rappresentare San Brychan che con l’ausilio di un grande telo tiene in braccio tutti i suoi bambini. Il secondogenito, San Cledwyn (Clydwyn), fu l’erede al trono.
San Brychan testimoniò ripetutamente la sua pietà, ma non esitò a ricorrere all’uso della forza nelle varie occasioni in cui dovette difendere le sue terre e l’onorabilità della sua famiglia. L’esempio più ecclatante si verificò quando la sua figlia maggiore, Santa Gladys, fu rapita dal suo futoro marito San Gwynllyw, inizialmente noto come brigante e dissoluto. Brychan li inseguirono per notti e giorni, finché fu combattuta una sanguinosa battaglia in cui caddero parecchi uomini. Intervenne poi provvidenzialmente il celebre re Artù a pacificare i due sovrani gallesi. Ma molte ancora furono le atrocità compiute dal sovrano in difesa del suo regno, finché un giorno preferì abdicare in favore del suddetto figlio Clydwyn, per potersi dedicare alla vita eremitica. Alcuni studiosi sostengono che quest’ultimo periodo della vita del sovrano sia da identificare con quello di un suo presunto figlio, San Nectan.
Brychan morì in età assai avanzata e fu sepolto sull’Ynys Brychan, odierna isola di Lundy. Il suo nome è presente anche nelle varianti di Brocanus, in latin, e Brecon, in inglese. La sua festa ricorre al 6 aprile.
Autore: Fabio Arduino
Martirologio Romano: A Roma, santa Galla, che, figlia del console Simmaco, alla morte del marito attese per molti anni presso la chiesa di San Pietro alla preghiera, alle elemosine, ai digiuni e ad altre opere sante; il suo beato transito è stato narrato dal papa san Gregorio Magno.
Figlia di Q. Aurelio Memmio Simmaco, princeps senatus, per molti anni consigliere del re Teodorico, che però lo fece uccidere in Ravenna (525) per infondati sospetti di tradimento, fu data in sposa ad un giovane patrizio, di cui non si conosce il nome. Rimasta vedova dopo un anno, quantunque stimolata dai parenti e dai medici a nuove nozze, preferí consacrarsi a Dio dapprima nell'esercizio delle opere di misericordia e poi ritirandosi in un monastero nei pressi della basilica vaticana.
Qui visse, afferma s. Gregorio, molti anni "nella semplicità del cuore, dedita all'orazione, distribuendo larghe elemosine ai poveri". La decisione della giovane suscitò in Roma una salutare impressione, la cui eco si diffuse lontano. Dalla Sardegna, dove per la seconda volta si trovava in esilio, s. Fulgenzio di Ruspe (che forse in Roma aveva avuto occasione di conoscere la famiglia della santa) le indirizzò una bellissima lettera, quasi un trattatello in ventuno capitoli, in cui la conferma nella decisione presa e le impartisce consigli ascetici.
Prima di morire la santa ebbe una visione dell'apostolo s. Pietro che la invitava al cielo ed è questa la ragione per cui s. Gregorio ne parla nei suoi Dialogi, al libro IV, che ha lo scopo di dimostrare l'immortalità dell'anima attraverso apparizioni o visioni avute da anime elette. Secondo la tradizione le sarebbe apparsa la Vergine mentre ella attendeva alle consuete opere di carità. Il miracoloso avvenimento è ricordato da una pregevole opera a niello del sec. XI nella chiesa di S. Maria in Portico in Campitelli. La festa commemorativa di tale apparizione, per concessione della Congregazione dei Riti, si celebra in Roma il 17 luglio, mentre s. Galla nel Martirologio Romano è commemorata il 5 ottobre. Verso la metà del sec. XVII sorse in Roma, per opera di M. A. Anastasio Odescalchi, cugino del b. Innocenzo XI, un ospizio di carità intitolato alla santa, in cui s. Giovanni B. De Rossi svolse molti anni di attività e raggruppò in speciale associazione i sacerdoti dediti ad opere di apostolato tra le classi piú umili. Dal 1940 alla santa è dedicata in Roma una chiesa parrocchiale.
Autore: Battista Proja Fonte:Enciclopedia dei Santi
Gwangju, Corea del Sud, 1760 – Seul, 8 aprile 1801
Agostino Jeong Yak-jong venne a conoscenza del cattolicesimo due anni dopo la sua introduzione in Corea. Le prime persone che evangelizzò furono la sua seconda moglie Cecilia Yu So-sa, e i figli Carlo Jeong Cheol-sang, Paolo Jeong Ha-sang [Chong Hasang] ed Elisabetta Jeong Jeong-hye [Chong Chong-hye]. Appassionato della dottrina cristiana, la compendiò in un Catechismo in due volumi nella sua lingua natia. All’esplodere della persecuzione Shinyu (1801), finì subito sulla lista dei ricercati. Dopo aver patito numerose torture, venne decapitato presso la Piccola Porta Occidentale a Seul l’8 aprile 1801, a quarantuno anni. La moglie e i figli, non molto tempo dopo, subirono la sua stessa sorte. Agostino e il figlio Carlo sono stati inseriti nel gruppo di martiri capeggiato da Paolo Yun Ji-chung e beatificati da papa Francesco il 16 agosto 2014, nel corso del viaggio apostolico in Corea del Sud. Cecilia e gli altri due figli, invece, sono stati canonizzati il 6 maggio 1984 da san Giovanni Paolo II.
Agostino Jeong Yak-jong nacque nel 1760 a Majae, presso Gwangju, nel distretto del Gyeonggi (attualmente Neungnae-ri, Joan-myeon, Namyangju-si, Gyeonggi-do), in una famiglia di studiosi molto noti.
Nel 1786, due anni dopo l’introduzione del cattolicesimo in Corea, Agostino ne venne a conoscenza. Apprese il catechismo da suo fratello maggiore e, una volta che l’ebbe assimilato profondamente, ricevette il Battesimo. Da allora, si diede a insegnarlo anzitutto ai membri della sua famiglia: alla sua seconda moglie, Cecilia Yu So-sa, e ai figli, Carlo Jeong Cheol-sang (nato dalle sue prime nozze), Paolo Jeong Ha-sang [Chong Hasang] ed Elisabetta Jeong Jeong-hye [Chong Chong-hye].
Per praticare più tranquillamente la sua religione, Agostino si trasferì a Bunwon (attualmente Bunwon-ri, Namjong-myeon, Gwangju-si, Gyeonggi-do). A quell’epoca, i suoi fratelli iniziarono a distaccarsi gradualmente dalla Chiesa, ma lui s’impegnava ancora di più: aveva frequenti contatti coi fedeli dei villaggi vicini e li invitava a casa sua per apprendere il catechismo; inoltre, prendeva attivamente parte alle attività ecclesiali.
Quando, sul finire del 1794, arrivò clandestinamente in Corea padre Giacomo Zhou Wen-mo, missionario cinese, Agostino andò spesso a Seul per incontrarlo e ricevere i Sacramenti, dedicandosi ad aiutare lui e gli altri fedeli. Grazie alla sua padronanza della dottrina, scrisse «Jugyo-yoji», un Catechismo in lingua coreana, in due volumi, facilmente comprensibile a tutti. Con l’approvazione di padre Giacomo, quel testo ricevette larghissima diffusione tra i fedeli. Nel frattempo, il missionario aveva fondato il Myeongdohoe, una comunità di credenti, e nominò Agostino primo presidente. Insieme a Giovanni Choe Chang-hyeon, aiutò molti fedeli nello studio del catechismo, tra i quali Paolo Yi Guk-seung.
Nel 1800, all’inizio di una persecuzione nei dintorni della regione vicina, lui e i suoi familiari si trasferirono a Seul. Tuttavia, nell’anno successivo, con la persecuzione Shinyu, l’intera Chiesa cattolica di Corea fu a rischio. Il nome di Agostino finì subito sulla lista dei ricercati e i suoi libri consegnati all’ufficio del governo. La corte reale ordinò di arrestarlo immediatamente, cosa che avvenne l’11 febbraio 1801 del calendario lunare.
L’indomani, venne pesantemente interrogato e torturato, ma, determinato com’era a morire in nome di Dio, non cedette a nessuna tentazione. Non disse nulla di dannoso per la Chiesa o per i fedeli, bensì cercò di spiegare che la dottrina cattolica era esatta e veritiera: «Non c’è nulla di sbagliato nel venerare il Signore, ma è cosa buona e giusta. [...] Dio è il “nostro Grande Re e Grande Padre del cielo e della terra”. Se non comprendiamo il motivo per cui dobbiamo venerare Dio, siamo peccatori sotto il cielo e, benché siamo vivi, siamo morti».
I persecutori adoperarono tutti i mezzi possibili per farlo cedere, ma risultarono confusi dalla dottrina che predicava. Infine, la corte approvò la condanna a morte promulgata dal Ministero della Giustizia. Così, quindici giorni dopo il suo arresto, Agostino venne condotto presso la Piccola Porta Occidentale a Seul, per essere giustiziato.
Appena il carro che doveva condurlo al terreno di esecuzione fu pronto, vi salì sopra e gridò a voce alta, rivolto alla gente che si era radunata: «Fratelli e sorelle, non derideteci. Noi crediamo che morire per Dio sia naturale per tutte le persone che nascono al mondo. Nel giorno del giudizio finale, le nostre lacrime si muteranno in pura beatitudine e le vostre liete risate si trasformeranno in acerbi dolori».
Agostino, che aveva quarantuno anni, rese lo spirito dicendo: «Meglio morire guardando in alto verso il cielo che vivere guardando in basso sulla terra». Era l’8 aprile 1801 (26 febbraio secondo il calendario lunare).
I suoi familiari, dopo essere stati privati dei loro beni, incontrarono la sua medesima sorte: il figlio Carlo Jeong Cheol-sang, il 14 maggio 1801; la moglie Cecilia Yu So-sa, il 23 novembre 1839; gli altri due figli, Paolo Jeong Ha-sang ed Elisabetta Jeong Jeong-hye, rispettivamente il 22 settembre e il 29 dicembre 1839. Questi ultimi tre sono stati canonizzati il 6 maggio 1984 da san Giovanni Paolo II, inseriti nel primo grande gruppo dei martiri coreani.
Agostino Jeong Yak-jong e Carlo Jeong Cheol-sang, invece, sono stati inseriti nel gruppo di martiri capeggiato da Paolo Yun Ji-chung (del quale fanno parte anche i già menzionati padre Giacomo Zhou Wen-mo, Giovanni Choe Chang-hyeon e Paolo Yi Guk-seung) e beatificati da papa Francesco il 16 agosto 2014, nel corso del viaggio apostolico in Corea del Sud.
Autore: Emilia Flocchini
Un'altra intera famiglia di Santi! Santa Lei, i 2 genitori, la sorella, il marito e i 4 figli!
+ 688 circa
Martirologio Romano: A Mons in Neustria, nel territorio dell’odierno Belgio, santa Valtrude, che fu sorella di santa Aldegonda, moglie di san Vincenzo Madelgario e madre di quattro santi; imitando il marito, si consacrò a Dio e prese l’abito monastico nel cenobio da lei stessa fondato.
Nella storia della cristianità non mancano, anche se spesso sconosciuti, i casi di intere famiglie elevate agli onori degli altari, come per esempio la santa oggi festeggiata, Valdetrude (in francese Waudru), che è venerata addirittura sia con la sua famiglia d'origine che con quella da lei creata: sono infatti considerati santi i suoi genitori Valdeberto e Bertilla, sua sorella Aldegonda, suo marito Vincenzo Maldegario ed i loro quattro figli Landerico, vescovo di Parigi, Dentellino, morto ancora giovane, Aldetrude, badessa Maubeuge, e Madelberta, anch'ella badessa del medesimo monastero.
Famiglia di condizioni abbastanza agiate, non appena i figli furono abbastanza grandi da provvedere a se stessi, i coniugi di comune accordo decisero di separarsi per meglio potersi dedicare al servizio di Dio nella vita religiosa. Madelgario intraprese allora la fondazione di un monastero presso Haumont, ove divenne monaco assumendo il nome religioso di Vincenzo. Sua moglie Valdetrude, invece, attese ancora due anni per poi ritirarsi dal mondo, andando a vivere in solitudine in una piccola abitazione. Fu invitata dalla sorella Aldegonda ad unirsi alla comunità di Maubeuge, ma ella ritenne di poter comunque condurre una vita ancor più austera rimanendo al di fuori dell'abbazia.
Con il passare del tempo, però, venne a tal punto disturbata dai visitatori che si recavano da lei in cerca di consiglio, da giungere ad intraprendere anch'essa la fondazione di un proprio convento presso Chateaulieu, al centro dell'attuale città di Mons in Belgio.
Divenne così celebre per le sue numerose opere di misericordia e le vennero attribuite parecchie guarigioni miracolose, sia in vita che in morte. Rese l'anima a Dio verso l'anno 688, ormai vedova da undici anni. Il suo culto si sviluppo a partire almeno dal IX secolo, periodo in cui un monaco di Mons redasse una sua Vita in latino, ed il suo nome nel 1679 fu introdotto nel Martyrologium Romanum, ove compare ancora oggi in data 9 aprile. Santa Valdetrude è la patrona di Mons, città che custodisce anche le sue reliquie in una chiesa del XV secolo, costruita vicino all'autentica Chateaulieu.
Autore: Fabio Arduino
Terenzio e compagni furono martirizzati a Cartagine per le persecuzioni dell'imperatore Decio, nel III sec.
Etimologia: Terenzio = gira la macina, mugnaio, dal latino
Emblema: Palma
Martirologio Romano: In Africa, santi Terenzio, Africano, Massimo, Pompeo, Alessandro, Teodoro e quaranta compagni, martiri, che, sotto l’imperatore Decio morirono per la loro fede cristiana.
S. Terenzio è il capo di un gruppo di martiri di origine orientale, uccisi a Cartagine per ordine del ‘prefetto d’Africa’ Fortunaziano, al tempo dell’imperatore Decio. Questi aveva emanato un decreto di persecuzione e condanna al supplizio contro tutti coloro che non avessero rinnegato il Cristianesimo.
Ci furono parecchie defezioni ma Terenzio e altri trentanove compagni decisero di non cedere, seguì l’arresto e il processo in tribunale, anche qui, benché sollecitati e poi torturati con supplizi vari, non lasciarono la loro fede, anzi fu proprio Terenzio a rispondere per tutti, con la sua pubblica professione cristiana, a tal punto il prefetto li condannò a morte tramite decapitazione.
Si conoscono i nomi di alcuni compagni di martirio, forse persone più in vista: Africano, Massimo, Pompeo, Zenone, Alessandro, Teodoro.
Alla fine del IV secolo, sotto l’imperatore bizantino Teodosio il Grande, i loro corpi furono traslati a Costantinopoli.
Almeno otto fonti agiografiche narrano la loro ‘Passio’ ponendo la celebrazione liturgica chi il 5, chi l’11 ma il giorno più usato è il 10 aprile.
Il nome è di origine latina e significa ‘nativo di Taranto’ ma può avere il significato di ‘tenero, molle, delicato’ secondo alcuni studiosi di etimologia.
Autore: Antonio Borrelli
1046 - 13 aprile 1113
Nata nel 1046, sposò il conte di Boulogne, al quale diede tre figli diventati illustri: Goffredo di Buglione, comandante della prima Crociata e conquistatore di Gerusalemme, di cui fu il primo re cristiano, Eustachio III che succedette al padre come conte di Boulogne e Baldovino, a sua volta re di Gerusalemme dopo il fratello; ebbe anche varie figlie. Si era sposata a 17 anni, per obbedire ai genitori; il marito non ostacolò mai la sua attività religiosa e la sua carità. Volle allattare essa stessa i figli nella speranza che ricevessero col primo nutrimento la disposizione alla religione; e quando crebbero ne curò personalmente l’educazione. Disprezzava le vanità, il futile splendore mondano; mortificava il corpo sotto il ricco abito che portava per forza. Spargeva i suoi doni sui bisognosi d’ogni sorta: indigenti, malati, pellegrini, vedove, orfani. La sua delizia era occuparsi di loro. Ma altresì si occupava delle chiese da restaurare e salvare dalla distruzione. Morto il conte suo marito, poté disporre liberamente dei suoi beni e fondare diversi monasteri. Ebbe un direttore di coscienza eccezionale, sant’Anselmo, futuro arcivescovo di Canterbury, sotto la cui influenza favorì la riforma monastica nelle Fiandre. Non prese l’abito benedettino, come si è creduto, ma ottenne da sant’Ugo l’aggregazione spirituale a Cluny, così da potersi considerare oblata secolare dell’Ordine benedettino. Morì il 13 aprile 1113. Molti fatti gloriosi della prima Crociata furono attribuiti alle sue preghiere.
Martirologio Romano: Nel monastero di Santa Maria presso Wast nella regione di Boulogne in Francia, beata Ida, che, vedova di Eustachio conte di Boulogne, rifulse per la sua generosità verso i poveri e per lo zelo del decoro della casa di Dio.
Sposa di Eustachio II, conte di Boulogne, Ida fu madre di Eustachio III, di Goffredo di Buglione e di Baldovino, re di Gerusalemme. Grande benefattrice delle chiese e dei poveri, dopo la morte del marito fondò diversi monasteri: Saint-Wulmer a Boulogne per i Canonici Agostiniani, Saint-Michel-du-Wast per i monaci cluniacensi. Fece considerevoli donazioni alle abbazie di Saint-Bertin, Bouillon e Afflighem, favori la riforma di Cluny sotto l'influenza di s. Anselmo di Canterbury che con lei rimase in corrispondenza epistolare. Questo particolare sottolinea il ruolo che il santo arcivescovo ebbe nella riforma monastica nelle Fiandre.
Ida non prese l'abito benedettino, come si è creduto (Holweck, p. 500), ma ottenne da s. Ugo l'aggregazione spirituale a Cluny, cosi da potersi considerare oblata secolare dell'Ordine Benedettino. Morì il 13 apr. 1113 e fu sepolta nella chiesa di Wast (notiamo che molte notizie biografiche leggono, a torto, Saint-Waast, invece di Wast). Nel 1669 le sue reliquie vennero trasferite presso i Benedettini del S.mo Sacramento a Parigi, i quali le portarono con loro quando, nel 1808, si stabilirono a Bayeux, luogo in cui sono ancora custodite (una reliquia, tuttavia, venne lasciata a Wast).
La festa di Ida che si celebrava nell'antica diocesi di Boulogne, venne poi autorizzata nelle diocesi di Arras e di Bayeux, quando queste adottarono il rito romano. La commemorazione della santa si trova in molti calendari medievali al 13 apr. Pure in quel giorno si ricorda la beata Ida di Lovanio, di cui si ignora però la data della morte.
Per la santa madre di Goffredo di Buglione non si ha una rappresentazione iconografica ben caratterizzata, anche perché scarse sono le figurazioni che si hanno di lei. Tra queste, in genere assai tarde, è degna di nota la scultura lignea del settecentesco Georg Ueblherr nella chiesa austriaca di Engelszell che rappresenta la santa in adorazione del crocifisso.
Fonte: Enciclopedia dei Santi
m. 585
Vissuto nel VI secolo, era figlio di Leovigildo, il primo re di Spagna visigoto e, come tutti i visigoti, era seguace di Ario. Il suo matrimonio con una cattolica provocò tensioni a corte e il re esiliò Ermenegildo e sua moglie a Siviglia. Qui, il giovane si convertì al cattolicesimo e tentò di sconfiggere il padre con l’aiuto dei Bizantini e degli Svevi. Gettato in carcere a Tarragona, rifiutò di ricevere la Comunione dalle mani di un vescovo ariano e per questo fu giustiziato. Figura molto controversa, il giudizio su di lui è stato a volte severo, a volte più o meno comprensivo. San Gregorio Magno, ad ogni modo, mette in rilievo il suo incontrovertibile martirio. E’ patrono della Spagna.
Patronato: Spagna
Etimologia: Ermenegildo = dono del dio Irmin, dal tedesco
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Tarragona in Spagna, sant’Ermenegildo, martire, che, figlio di Leovigildo re dei Visigoti seguace dell’eresia ariana, si convertì alla fede cattolica per opera del vescovo san Leandro; rinchiuso in carcere per essersi ribellato alla volontà del padre rifiutandosi di ricevere la comunione da un vescovo ariano nel giorno della solennità di Pasqua, per ordine del padre stesso morì sotto un colpo di scure.
Sant’Ermenegildo, patrono della Spagna, e suo fratello Reccaredo erano figli di Leovigildo, primo re dei Visigoti in terra spagnola, e di Teodosia, sua prima consorte. Si ignora la data esatta della sua nascita, collocabile comunque verso la metà del VI secolo. Sin dalla giovinezza fu educato nell’arianesimo, confessione eretica professata dai suoi padri.
I Visigoti, originari della Scandinavia, nel III secolo scesero sulle rive del Danubio e le coste settentrionali del Mar Nero, ove furono convertiti all’arianesimo da Ulfila (+383). Nato in Germania, nipote di prigionieri cristiani stanziati in Cappadocia, egli fu per oltre quarant’anni loro vescovo missionario, che li catechizzò con la traduzione gotica della Bibbia. Quando nel 376, incalzati dagli Unni, si stanziarono in Tracia come federati dell'impero, erano ormai completamente arianizzati. In quel tempo gli imperatori Costanzo e Valente tentavano di imporre l’erronea dottrina di Ario come religione di stato. Dai Goti di Ulfila l’arianesimo fu trasmesso come patrimonio nazionale a tutti i popoli germanici orientali che, nel V secolo, irruppero entro i confini dell’impero. Anche quando, sotto il di regno San Teodosio I il Grande, venne adottata ufficialmente per legge dall’impero la fede nicena, la chiesa dell’arianesimo germanico continuò imperterrita a ritenere che il Figlio di Dio fosse solamente simile al Padre e non ugualmente eterno come Lui, a ripudiare la speculazione trinitaria e cristologica dei teologi greci, ad usare la lingua germanica nelle funzioni liturgiche, a riconoscere al sovrano il potere di nomina dei vescovi e di convocazione dei sinodi ed infine a considerare le chiese quali proprietà di chi aveva concesso il suolo per la loro edificazione. Nei Balcani i Visigoti giunsero presto ad un aspro conflitto con i loro protettori bizantini, il maltrattamento da parte dei funzionari imperiali provocò un sommossa e nel 378 l’imperatore Valente rimase sconfitto e ucciso nella battaglia di Adrianopoli. Gli sforzi compiuti dal suo successore Teodosio il Grande, come più tardi dal patriarca di Costantinopoli San Giovanni Crisostomo, per indurre i Visigoti ad accogliere la dottrina del concilio di Nicea, ebbero purtroppo scarso successo. Presso di loro l’arianesimo si mantenne così ancora per lungo tempo, quando ormai il popolo, dopo aver percorso e devastato la Grecia e l’Italia, si conquistò una nuova patria nella Gallia meridionale e nella Spagna nel 419.
Sorse così il primo regno germanico indipendente sul suolo dell’impero romano. Leovigildo, sovrano astuto, ariano convinto, trattò i suoi sudditi cattolici ancora col massimo rigore e talvolta anche con crudeltà, perché temeva che potessero minare l’assolutezza del suo potere. Dopo la morte di Teodosia, egli sposò Gosvinda, vedova di suo fratello Atanagildo e madre di Brunechilde, andata sposa al re di Austrasia Sigiberto. La loro figlia Ingunda, cattolica assai fervente, fu sposata nel 579 da Ermenegildo, che il padre aveva accuratamente allevato nella fede ariana ed aveva poi associato con Reccaredo al governo del regno sin dal 573.
Politicamente Leovigildo fu soddisfatto di tale matrimonio, che costituiva un maggiore legame con i Franchi, del cui appoggio necessitava al fine di consolidare il suo potere in Spagna. Gosvinda, invece, acerrima ariana, prese a manifestare apertamente tutto il suo odio contro la nuora cattolica.
Pretendeva ad ogni costo che ella si facesse ribattezzare secondo il rito ariano, ma Ingunda rimase ferma nelle sue convinzioni e non ne volle minimamente sapere, neppure quando la suocera la afferrò per i capelli, la spogliò delle vesti e la immerse in una piscina. “Mi basta - le rispose fiera - di essere stata purificata una volta dal peccato originale, con un salutare battesimo e di avere confessato la Santissima Trinità una e senza ineguaglianza di persone: ecco ciò che dichiaro di credere di tutto cuore. Mai rinuncerò alla mia fede”. Ingunda non solo mantenne fermamente il suo proposito, ma si adoperò con tutto il suo cuore e con tutte le sue forze per convincere suo marito ad abbracciare la retta fede nicena.
Per porre termine ai frequenti litigi a corte, causati dall’appartenenza della nuora alla religione cattolica, Leovigildo pensò di allontanare Ermenegildo e mandarlo a Siviglia in Andalusia. Quel forzato trasferimento si rivelò invece provvidenziale per suo figlio, che incontrò proprio in tale città colui che sarebbe stato il suo catechista e che avrebbe coadiuvato Ingunda nell’opera della sua conversione: il vescovo San Leandro. Questi, nato a Cartagena da una famiglia greco-romana molto religiosa, aveva abbracciato sin da giovane la vita monastica prima a San Claudio di Leon, poi a Siviglia, ove la famiglia si era trasferita. La solida formazione ricevuta lo aveva reso capace di divenire l’artefice dell’avvenire del suo paese in campo culturale e religioso. Eletto metropolita di Siviglia nel 579, aprì una scuola per studi dogmatici, artistici e scientifici, molto frequentata ai suoi tempi. Di questo apprezzatissimo centro culturale furono allievi anche i due figli di Leovigildo, ma solamente sull’erede al trono in un primo momento Leandro riuscì ad esercitare un benefico influsso, inducendolo infatti a ricevere il battesimo niceno.
Da quel momento Ermenegildo non poté che diventare il capo della fazione cattolica, con conseguente grande ira di suo padre che, mal consigliato da Gosvinda, non esitò a ricorrere ad ogni mezzo affinché l’arianesimo prevalesse, guadagnando alla sua causa persino qualche vescovo e condannando alla prigione ed all’esilio tutti coloro che, come Leandro, tennero testa alle sue violenze. Durante la lunga lotta tra padre e figlio, il santo vescovo fu mandato da Ermenegildo a Costantinopoli per implorare l’aiuto presso l’imperatore bizantino. Lo sventurato padre finì con l’assediare Siviglia dal 583 per quasi due anni finché il figlio, esaurita ogni risorsa, chiese aiuto ai bizantini in procinto di attaccare la Spagna. Il padre, credendo che suo figlio fosse fuggito, prese d’assalto la città. L’esercito imperiale, lasciatosi corrompere da Leovigildo, non gli prestò l’aiuto promesso, motivo per cui ad Ermenegildo non restò che rifugiarsi a Cordova, ove fu fatto prigioniero dal padre e quindi esiliato a Valenza. Lo fece poi trasferire in un carcere di Terragona, dove venne decapitato il 13 aprile 585 per essersi rifiutato di ricevere la comunione da un vescovo ariano.
Con la tragica scomparsa di Ermenegildo, le legazioni di Leandro a Costantinopoli mutarono in una vera e proprio condizione di esilio, durante la quale strinse amicizia con l’apocrisario della Santa Sede, San Gregorio Magno, che proprio su sua insistenza scrisse i “Moralia in Job”. L’esilio di Leandro non durò però a lungo, giacché Leovigildo morendo lo raccomandò alla benevolenza di Reccaredo, suo successore. Non appena poté fare ritorno a Siviglia, Leandro si dedicò alla conversione degli ariani, a cominciare dalla famiglia reale. Reccaredo, animato dalla gloriosa testimonianza di suo fratello, si convertì alla fede cattolica e favorì con ogni mezzo la conversione del suo popolo. Gosvinda invece non ne volle assolutamente sapere e si pose a capo di una rivolta ariana contro il sovrano, ma vedendosi presto sconfitta si tolse la vita. Reccaredo, riportate tre brillanti vittorie sui vescovi ariani sostenuti dal re burgundo Gontrano, convocò nel 589 il terzo Concilio di Toledo in cui consegnò la sua professione di fede ortodossa scritta nelle mani dei vescovi presenti e decretò il ritorno all’unità politico-religiosa dei popoli dei Goti e degli Svevi. L’anno successivo Leandro apprese che il suo amico Gregorio era stato eletto al sommo pontificato e gli mandò le sue felicitazioni, informandolo degli ultimi notevoli progressi della fede cattolica nella penisola iberica.
Figura molto controversa, il giudizio degli storici su Ermenegildo è stato a volte severo, a volte più o meno comprensivo. San Gregorio Magno, ad ogni modo, mise in rilievo il suo incontrovertibile martirio subito in odio alla fede cattolica. Su intercessione del re Filippo II, nel 1585 il pontefice Sisto V concesse alla Spagna di poter celebrare la festa del santo sovrano nella data della morte, dopodichè Urbano VIII estese tale memoria alla Chiesa Universale ed ancora oggi la nuova edizione del Martyrologium Romanum riporta al 13 aprile il martire Sant’Ermenegildo.
E’ infine degno di nota, in quanto dedicato alla memoria del santo, l’Ordine Militare di Sant’Ermenegildo istituito dal re Ferdinando VII di Spagna il 28 novembre 1814 e destinato a ricompensare il servizio reso dai militari in Spagna e nelle Indie. L’Ordine si divide in tre classi: Cavalieri di Gran Croce, Cavalieri di seconda classe e Cavalieri di terza classe. La decorazione consiste in una croce patente d’oro, smaltata di bianco, sormontata dalla corona reale. Caricato in cuore uno scudetto d’azzurro con l’immagine di Sant’Ermenegildo. Lo scudetto risulta circondato dal motto “Premio a la constancia militare”; nel retro la cifra del sovrano. Il nastro dell’Ordine è di bianco al palo di rosso.
L’iconografia è solita rappresentare il santo con tutte le insegne tipiche dei martiri e dei sovrani: palma, ascia, scettro, corona. Celebri sono due sue raffigurazioni pittoriche: “Trionfo di Sant’Ermenegildo” di Francisco de Herrera, custodita presso il Museo del Prado, e “Sant’Ermenegildo in carcere” di Francisco Goya y Lucientes, presso il Museo Lazaro Galdiano in Madrid. Non mancano però anche icone orientali, in quanto il santo è talvolta venerato anche dalle Chiese Ortodosse.
Autore: Fabio Arduino
m. Pergamo (Asia), 170 o 250 circa
Emblema: Palma, Rogo
Martirologio Romano: A Pergamo nell’Asia, nell’odierna Turchia, santi martiri Carpo, vescovo di Tiatira, Pápilo, diacono, Agatoníca, sorella di Papilo, e molti altri, che per la loro beata professione di fede ricevettero la corona del martirio.
Gli “Acta” relativi ai santi martiri Agatonica, Carpo, Papilo e loro compagni sono sicuramente tra i più attendibili nella storia della cristianità, anche se purtroppo non è ben chiara la datazione della persecuzione di cui rimasero vittime, cioè sotto il regno di Marco Aurelio (161-180), piuttosto che sotto Decio (249-251). Carpo era vescovo di Gurdos in Lidia, mentre Papiro era diacono di Tiatira, nella medesima provincia, ed Agatonica sua sorella: furono portati davanti al governatore romano di Pergamo ed invitati a mangiare la carne che era stata offerta agli idoli.
Carpo però replicò: “Io sono un cristiano, venero Cristo, Figlio di Dio, che è venuto nel mondo negli ultimi tempi per la nostra salvezza […] ma a questi idoli non offro sacrificio”. Subiti ulteriori interrogatori fu infine condannato alla flagellazione.
Anche Papilo rispose in modo simile al governatore: “Fin dalla giovinezza servo il Signore e non ho mai offerto sacrifici agli idoli: sono cristiano e nient’altro puoi sentire da me all’infuori di questo, poiché non c’è parola più grande e più bella di questa che io possa dire”.
Dopo che anche Papiro fu torturato, venne nuovamente chiesto loro di consumare la carne utilizzata per i sacrifici pagani ed al loro rifiuto furono condannati a morire bruciati sul rogo. Ancora in punto di morte Carpo affermò: “Sii benedetto, o Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, che ti sei degnato di far partecipe della tua gloria anche me peccatore”.
Agatonica era una madre cristiana che patì la persecuzione nel medesimo periodo: a chi la esortava a salvare la propria vita per il bene dei suoi figli rispose: “Mio figlio ha Dio che può avere pietà di lui, perché è lui che provvede a tutte le creature”. Fu così destinata a subire la stessa sorte di suo fratello Papilo e del vescovo Carpo, con la medesima motivazione.
L’antichità del culto dei tre martiri è attestata dalla “Storia ecclesiastica” del celebre Eusebio di Cesarea e dal Breviario Siriano. Il Martyrologium Romanum accolse in seguito tale memoria ponendola al 13 aprile ed aggiungendovi dei presunti numerosi compagni di martirio.
Autore: Fabio Arduino
Da pregare contro le tentazioni carnali
m. Alessandria d’Egitto, 476
Martirologio Romano: Ad Alessandria d’Egitto, santa Tomaide, martire.
Santa Tomaide, martire presso Alessandria d’Egitto, è commemorata dai sinassari bizantini che ne riportano un lungo elogio ricco di particolari, tratteggiando il profilo di una “Maria Goretti” d’altri tempi, uno fra tanti esempi di ragazze cristiane che hanno preferito la morte all’integrità della loro verginità. Nativa di Alessandria, fu data in sposa ad un pescatore, ma il suocero rimase infatuato da un’impura passione e tentò di sedurla. La santa si oppose con fermezza d’animo e con ogni sua forza ed allora il corteggiatore la colpì con la spada tagliandola in due e provocandone così la morte. Era l’anno 476.
Il vecchio, divenuto cieco, confessò il delitto e venne decapitato. La notizia del glorioso martirio di Tomaide si diffuse subito nei dintorni di Alessandria e l’abate Daniele fece seppellire il corpo della santa nel cimitero dei monaci. In seguito le reliquie furono traslate a Costantinopoli. L’olio delle lampade ardenti sulla sua tomba fu utilizzato quale rimedio contro le tentazioni carnali. Assolutamente leggendari paiono essere gli Atti di Santa Febronia, attribuiti a Santa Tomaide.
Autore: Fabio Arduino
Convertito dalla moglie (ovviamente anch'essa santa)
Roma, 177 - Roma, 14 aprile 229
I tre santi martiri Tiburzio, Valeriano e Massimo, vissuti nel III secolo a Roma, sono ricordati da antiche fonti sin dal V secolo, tuttavia vi sono due versioni che trattano la loro personalità ed esistenza storica; una è legata alla «Passio» di santa Cecilia († 232), mentre l'altra è riportata dal «Martirologio Geronimiano». Secondo la «Passio», Valeriano era sposo di Cecilia e da lei convertito, fu battezzato dal papa Urbano I (222-230) e a sua volta convertì al cristianesimo il fratello Tiburzio; ambedue furono condannati a morte dal prefetto Almachio, che li affidò al «cornicularius» Massimo, (ufficiale in seconda del console) il quale prima di fare eseguire la sentenza, si convertì anche lui, venendo così condannato e ucciso qualche giorno dopo. Valeriano e Tiburzio furono martirizzati e sepolti in un posto chiamato Pagus da Cecilia, a quattro miglia da Roma, ma che non è stato identificato, e che poco dopo seppellì anche Massimo in un diverso sarcofago. (Avvenire)
Etimologia: Tiburzio = oriundo di Tivoli, dal latino; Valeriano = che sta bene, forte, robus
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Pretestato sulla via Appia, santi Tiburzio, Valeriano e Massimo, martiri.
I tre santi martiri Tiburzio, Valeriano e Massimo, vissuti nel III secolo a Roma, sono ricordati da antiche fonti sin dal V secolo, tuttavia vi sono due versioni che trattano la loro personalità ed esistenza storica; una è legata alla “passio” di s. Cecilia († 232), mentre l’altra è riportata dal ‘Martirologio Geronimiano’.
Nel suddetto Martirologio sono citati ben quattro volte, la prima li indica come sepolti nel cimitero di Pretestato e ricordati il 14 aprile e questa versione è quella passata poi nel Martirologio Romano, ancora oggi in uso.
Le altre versioni li ricordano come sepolti in altri cimiteri di Roma, ricordati in date diverse, a volte confusi, come il caso di s. Tiburzio con altro omonimo; gli studiosi della materia non sono giunti ad una certezza assoluta, sembra comunque che nel cimitero di Pretestato era sepolto il solo s. Tiburzio con celebrazione al 14 aprile, mentre nel cimitero di Callisto vi erano Massimo e Valeriano con la loro celebrazione al 21 aprile, che vennero poi traslati nel cimitero di Pretestato; sembra che in seguito fu s. Gregorio Magno ad unirli in un’unica celebrazione.
Comunque secondo la ‘passio’, Valeriano era sposo di Cecilia e da lei convertito, fu battezzato dal papa Urbano I (222-230) e a sua volta convertì al cristianesimo il fratello Tiburzio; ambedue furono condannati a morte dal prefetto Almachio, che li affidò al “cornicularius” Massimo, (ufficiale in seconda del console) il quale prima di fare eseguire la sentenza, si convertì anche lui, venendo così condannato e ucciso qualche giorno dopo.
Valeriano e Tiburzio furono martirizzati e sepolti in un posto chiamato Pagus da Cecilia, a quattro miglia da Roma, ma che non è stato identificato, e che poco dopo seppellì anche Massimo in un diverso sarcofago.
I loro sepolcri furono restaurati prima da Gregorio III (731-41) poi da Adriano I (772-795) e finalmente da Pasquale I (817-24) il quale trasferì le loro reliquie nella basilica di S. Cecilia a Trastevere.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: Ad Antiochia di Siria, nell’odierna Turchia, sante martiri Berníca e Prosdóca, vergini, e Domnina, loro madre, che, in tempo di persecuzione, per sfuggire alle intenzioni di alcuni che tentavano di insidiare la loro purezza, mentre cercavano scampo nella fuga, trovarono il martirio nelle acque di un fiume.
BERNICE, PROSDOCE e DOMNINA, sante, martiri di ANTIOCHIA.
La singolare forma di martirio rende facilmente identificabili le tre sante nella menzione a loro dedicata da Eusebio di Cesarea e nei panegirici pronunziati nel giorno della loro festa da Eusebio di Emesa e Giovanni Crisostomo, autori tutti che pur non ne fanno il nome. I loro nomi appaiono invece nel Breviario Siriaco al 20 aprile: «Prôsdòqas et Berenices...». Nel Martirologio Geronimiano il nome di Bernice figura nella forma corrotta Veronicae il 15 aprile, il 10 e 11 luglio; quello di Prosdoce, nelle forme di Prosduci, Prodociae e Prosdociae, compare negli stessi giorni e il 19 ottobre; Domnina, corrotto in Dominae, ricorre il 14, 15 aprile e il 10 luglio Il Sinassario Costantinopolitano ricorda queste martiri il 4 ottobre.
Il divario delle date può spiegarsi con un passo del Crisostomo (PG, L, col. 629) che pone il loro martirio circa venti giorni dopo la commemorazione della Santa Croce. Quindi i Greci, ritenendo che tale commemorazione sia quella del 14 settembre, giorno in cui si celebra, però, «l'esaltazione della Santa Croce» ricordano il martirio di Bernice, Prosdoce e Domnina il 4 ottobre, mentre il Breviario Siriaco pone il loro martirio al 20 aprile, considerando come giorno della «memoria della S. Croce» il venerdì santo. La data del Siriaco è preferibile perché all'epoca delle martiri non era ancora stata istituita la festa del 14 settembre.
Secondo il racconto tramandato da Eusebio di Cesarea, arricchito da Eusebio di Emesa e dal Crisostomo, Bernice e Prosdoce erano figlie di Domnina, patrizia antiochena celebrata per bellezza e virtù. Per sfuggire la persecuzione di Diocleziano le tre donne ripararono ad Edessa, ma, scoperto il loro rifugio, con la complicità del padre e marito, furono richiamate indietro. A Gerapoli le sorpresero i soldati romani. Domnina, temendo per la castità delle figlie, le esortò ad annegarsi con lei nel fiume, dopo aver lasciato sulla riva i calzari per non compromettere i soldati. Questo sacrificio fu celebratissimo per tutta l'antichità.
Nel Martirologio Romano al 19 ottobre si legge questa memoria: «Antiochiae sanctorum martyrum Beronici Pelagiae virginis, et aliorum quadraginta novem». Il primo nome si ricollega, attraverso la forma Veronica, a Bernice; Pelagia, celebre martire antiochena, vi è trasportata dalla rubrica dell'8 ottobre. Tale elogio deriva dalla lettura che Floro diede di un manoscritto del Geronimiano. Un'altra memoria del gruppo ricompare, nello stesso martirologio, al 14 aprile. Sant'Agostino afferma che le martiri erano oggetto di un culto molto diffuso e sant'Ambrogio le ricorda associando però con esse anche Pelagia.
Autore: Maria Vittoria Brandi Fonte:Enciclopedia dei Santi
m. Roma, 68 circa
Etimologia: Anastasio = risorto, dal greco; Basilissa = regina, dal greco
Emblema: Palma
Le sante Anastasia e Basilissa, nobili matrone romane, furono discepole dei Santi apostoli Pietro e Paolo, dei quali ebbero il singolare incarico e privilegio di seppellirne i corpi martoriati.
Persistettero costanti nella professione della loro fede e, dopo esser stata loro tagliata la lingua ed essere state percosse con la spada, conseguirono anch’esse la corona del martirio sotto l’imperatore Nerone, attorno all’anno 68.
I resti delle due gloriose martiri, secondo il Diario Romano del 1926, sarebbero ancora oggi custoditi in Santa Maria della Pace.
Il Martyrologium Romanum nelle passate edizioni ricordava le sante Anastasia e Basilissa al 15 aprile, ma le ultime riforme in materia hanno accomunato tutti i primi martiri cristiani di Roma in un’unica commemorazione posta al 30 giugno.
Autore: Fabio Arduino
m. Saragozza (Spagna), 304
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Saragozza in Spagna, commemorazione dei santi Ottato e diciassette compagni, martiri, che durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano furono sottoposti a tortura e uccisi; il loro nobile martirio fu celebrato in versi da Prudenzio.
Il Martyrologium Romanum riporta in data odierna, 16 aprile, ben tre distinte commemorazioni a dei santi che subirono il martirio presso la città spagnola di Saragozza durante la medesima persecuzione indetta dall'imperatore Diocleziano:
- Ottato con 17 compagni: Luperco, Successo, Marziale, Urbano, Giulia, Quintiliano, Publio, Frontone, Felice, Ceciliano, Evodio, Primitivo, Apodemio e quattro di nome Saturnino;
- la vergine Engrazia;
- Caio e Crescenzio.
Talvolta questo gruppo viene definito “Innumerevoli Martiri di Saragozza”.
Il poeta Prudenzio (circa 348-410), originario proprio di Saragozza, scrisse un inno dedicati ai martiri suoi concittadini, elencando tutti i loro nomi, ma senza specificare come vennero uccisi. L'inno tratta anche di una certa Santa Encratis (o Engrazia), vergine, che durante tale persecuzione patì orribili torture, dettagliatamente descritte da Prudenzio. Questi la definisce “giovane veemente” per il modo in cui difese la propria fede, da quanto risulta, sopravvisse alle torture, in quanto il poeta definisce la sua casa “santuario di una martire vivente”, fino a quando il suo corpo piagato non si arrese. Agli storici pare probabile che Engrazia abbia subito la persecuzione in un tempo successivo ad Ottato e probabilmente visse in un'epoca più vicina a quella di Prudenzio. Il nome della santa, senza dubbio la più famosa del gruppo, è talvolta riportato in varie forme ed il suo culto si diffuse in tutta la Spagna e sui Pinerei.
Sant'Ottato ed i suoi compagni furono venerati in special modo proprio nella chiesa a lei dedicata. In occasione del sinodo di Saragozza del 592, il santuario dedicato alla memoria dei santi martiri fu riconsacrato e fu redatta una Messa propria, nota come “Messa di Santa Engrazia o dei diciotto martiri”. La nuova consacrazione fu celebrata il 3 novembre e proprio in tale anniversario, per un certo periodo, venne celebrata la festa di questi santi, anche se è più consona la data odierna indicata dal nuovo Martirologio cattolico.
† Avrillé, Francia, 16 aprile 1794
I laici Pierre Delépine, nato a Marigné il 24 maggio 1732, e Jean Ménard, nato ad Andigné il 16 novembre 1736, insieme ad altre ventiquattro donne, quasi tutti contadini, caddero vittime della Rivoluzione Francese in odio alla loro fede cristiana. Furono beatificati il 19 febbraio 1984 insieme ad una folta schiera di martiri della diocesi di Angers.
Martirologio Romano: Ad Avrillé presso Angers in Francia, beati martiri Pietro Delépine, Giovanni Ménard e ventiquattro compagne, che, quasi tutti contadini, furono fucilati durante la rivoluzione francese in odio alla fede cristiana.
Firenze (?), 1362 - Pisa, 17 aprile 1420
Originaria del potente casato mercantile dei Gambacorti o Gambacorta, che nel Trecento sono diventati per due volte signori in Pisa; nasce nel 1362 forse a Firenze. È conosciuta con il nome di Tora. Già da bambina viene inclusa nei progetti politici e finanziari del padre, che nel 1374 la dà in sposa a un giovane di famiglia importante, Simone Massa. Ma resta vedova tre anni dopo. Dopo aver incontrato a Pisa nel 1375 Caterina da Siena decide di ritirarsi presso le monache Clarisse. Ma non diventerà una di loro, ostacolata dalla famiglia. Entrerà più tardi nel monastero domenicano di Santa Croce, dove prenderà il nome di suor Chiara. Sarà poi madre abbadessa, e farà della sua comunità domenicana un centro di diffusione del movimento riformatore nell'Ordine. I beni dei Gambacorti le servono per farne anche un centro di accoglienza per ogni sorta di poveri. Un giorno battono alla sua porta la moglie e le figlie dell'uomo che ha ucciso suo padre e i suoi fratelli. Troveranno piena accoglienza. Morirà, acclamata santa, nel 1420. Nel 1830, Pio VIII ne ha confermato il culto come beata. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Pisa, beata Chiara Gambacorti, che, ancora giovane, rimasta vedova del marito, su esortazione di santa Caterina da Siena, fondò qui il primo monastero domenicano di stretta osservanza e, perdonati gli assassini del padre e dei suoi fratelli, governò le consorelle con prudenza e carità.
Forse il suo nome originario è Teodora oppure Vittoria. Ma tutti la chiamano Tora. È nata nel potente casato mercantile dei Gambacorti o Gambacorta, che nel Trecento sono diventati per due volte signori in Pisa; poi, per due volte, hanno perduto la signoria, e alcuni anche la vita. Altri sono stati banditi per anni dalla città, e tra essi c’era Pietro Gambacorti, padre di Tora, nata nel 1362 forse a Firenze. Ma non sappiamo con certezza dove si trovasse in quel momento la famiglia; o se fosse già ritornata a Pisa, dove nel 1369 Pietro si sarebbe impadronito del potere.
Già da bambina, Tora viene inclusa nei progetti politici e finanziari del padre, che nel 1374 la dà in sposa a un giovane di famiglia importante, Simone Massa: e lei ha dodici anni. Ma Simone muore tre anni dopo, sicché in casa Gambacorti c’è ora una vedova quindicenne. La quale però si nega risolutamente a ogni altro disegno matrimoniale del padre, perché vuole scegliersi un futuro seguendo i consigli di Caterina da Siena. L’ha incontrata a Pisa nel 1375, in primavera e poi in autunno. Più tardi, dopo la morte del marito, riceve sue lettere che la spingono a farsi suora; e, anzi, già le danno suggerimenti pratici di comportamento quotidiano come religiosa: «E guarda che tu non perda il tempo tuo (...), ma sempre esercita il tempo o coll’orazione o colla lezione [lettura] o con fare alcuna cosa manuale, acciocché tu non cada nell’ozio». Su questa spinta, Tora decide di ritirarsi presso le monache Clarisse, ma non è ancora una di loro.
E non lo diventerà, perché la famiglia reagisce duramente alla sua iniziativa: i fratelli la portano via con la forza dal monastero, e per alcuni mesi la tengono in una sorta di prigionia domestica. Ma non serve. Ha deciso, e i suoi si rassegnano a vederla entrare nel monastero domenicano di Santa Croce. Qui Tora veste l’abito religioso e prende il nome di suor Chiara.
È il tempo in cui papa Gregorio XI, tallonato da Caterina, lascia Avignone per ritornare stabilmente in Roma (gennaio1377). Pietro Gambacorti, padrone di Pisa, lo accoglie solennemente durante la sosta a Livorno. E intanto fa costruire in Pisa un monastero nuovo per la figlia, che sarà dedicato a san Domenico. Non solo: vorrebbe anche poter ricevere un’altra volta in città Caterina da Siena. Lei non può più accettare, è ammalata; ma trova il tempo di scrivergli, con belle parole di gratitudine. E con un avviso bene in chiaro: sappia il signore di Pisa che è tempo per lui di “correggere” vita e comportamenti: «Non indugiate, che il tempo è breve e il punto della mortene viene, che non ce n’avvediamo».
Caterina muore nel 1380. Dodici anni dopo c’è in Pisa un’altra congiura contro i Gambacorti, appoggiata dai Visconti di Milano: e Pietro viene assassinato con i figli Benedetto e Lorenzo.
Nel monastero, suor Chiara diventa madre abbadessa, e fa della sua comunità domenicana un centro di diffusione del movimento riformatore nell’Ordine. I beni dei Gambacorti le servono per farne anche un centro di accoglienza per ogni sorta di poveri. E un giorno battono alla sua porta la moglie e le figlie dell’uomo che ha ucciso suo padre e i suoi fratelli. E da quel momento il monastero di Chiara diventa anche la loro casa.
Per le sue monache, Chiara è già santa da viva. E nel giorno della morte, invece del Requiem, le loro voci intonano il Gloria. Il suo corpo si trova ancora nel suo monastero. Nel 1830, il pontefice Pio VIII ne ha confermato il culto come beata.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
Parigi, 1 febbraio 1566 - Pontoise, 18 aprile 1618
Barbara Avrillot ebbe il merito di introdurre la riforma carmelitana di santa Teresa d'Avila in Francia. Nata a Parigi nel 1566 da famiglia nobile, studiò dalle Suore Minori dell'Umiltà di Nostra Signora a Longchamp. Fu data in sposa al visconte di Villemor, da cui ebbe sei figli. Ebbe come direttore spirituale san Francesco di Sales e nel 1601 conobbe gli scritti di santa Teresa. Ne fu così colpita da mettersi in moto per portare in Francia le Carmelitane scalze. Il primo Carmelo sorse a Parigi nel 1604, seguito da Pointoise, Digione e Amiens. Tutte e tre le figlie di Barbara presero l'abito. Così fece anche lei nel 1614, dopo la morte del marito, con il nome di Maria dell'Incarnazione. Morì nel 1618 ed è beata dal 1791. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Pontoise presso Parigi in Francia, beata Maria dell’Incarnazione (Barbara) Avrillot, che, provata madre di famiglia e moglie devotissima, introdusse il Carmelo in Francia e fondò cinque monasteri, finché, alla morte del marito, fece lei stessa professione di vita religiosa.
E’ considerata la “madre e fondatrice del Carmelo in Francia” perché ha contribuito a diffondere più di tutti la riforma carmelitana di s. Teresa d’Avila.
Nacque a Parigi il 1° febbraio del 1566 e si chiamava Barbara Avrillot, figlia del signore di Champlatreux, Nicola Avrillot.
Com’era consuetudine per la nobiltà dell’epoca, appena adolescente fu affidata alle Suore Minori dell’Umiltà di Nostra Signora residenti a Longchamp. Rientrata in famiglia verso i 14 anni non le fu concesso di scegliere la vita religiosa e quindi a 16 anni fu data in sposa al visconte di Villemor, Pietro Acarie, signore di Montbrost e di Roncenay uomo di intemerati costumi.
Iniziò per lei la vita matrimoniale e di madre, avendo poi avuto sei figli, dando esempio a tutti della possibilità di vivere una vita religiosa e conforme ai comandamenti di Dio, pur essendo impegnata come madre e moglie, adempiendo i suoi doveri anche nella conduzione della casa e nei confronti dei dipendenti, prova vivente di come i coniugi cristiani possano proseguire insieme nella via della santità.
Si prodigò attivamente ad aiutare i bisognosi, specie nell’assedio di Parigi del 1590, durante le guerre di religione, che videro in campo gli Ugonotti ed i cattolici con l’intervento militare degli spagnoli, sotto il regno di Enrico IV.
Fu figlia devota della Chiesa e partecipò all’azione di contrasto contro l’eresia protestante che cercava di estendersi in Francia. Dio la favorì con grazie mistiche straordinarie ma anche mandandole prove esteriori ed interiori. Il re Enrico IV esiliò il marito da Parigi, dopo la disfatta della Lega cui apparteneva, le ingratitudini ferirono il suo cuore, ma ella combatté affinché suo marito fosse riabilitato, la lotta durò quattro anni, alla fine dei quali la famiglia si ricompose e le proprietà restituite.
Conobbe s. Francesco di Sales il quale l’approvava e le faceva da guida spirituale. Nel 1601, letti gli scritti di s. Teresa di Gesù volle, lei laica, fare di tutto per introdurre in Francia la riforma carmelitana, nel 1602 raccolse le prime vocazioni, ottenne le autorizzazioni dal re, da cui era tenuta in grande considerazione, e nel 1603 papa Clemente VIII ne autorizzò la fondazione e quindi costruì il primo monastero.
Dalla Spagna, il 29 agosto 1604, giunsero sei Carmelitane Scalze fra cui una futura beata Anna di s. Bartolomeo e una futura Serva di Dio, Anna di Gesù, e il 17 ottobre poté così iniziare a Parigi la regolare vita monastica.
Barbara Avrillot ebbe la felicità di vedere entrare nel Carmelo tutte e tre le sue figlie e l’espandersi delle sedi anche a Pontoise, Digione, Amiens nel 1605/06. Nel 1613, il marito Pietro si ammalò gravemente e dopo nove giorni morì con la pace dell’uomo giusto, assistito dalla santa vedova confortata dalla celeste conferma della sua salvezza eterna.
Il 7 aprile 1614, libera ormai da ogni dovere e legame terreno, entrò nel Carmelo di Amiens come conversa, prendendo il nome di Maria dell’Incarnazione. Visse la sua vita di clausura con umiltà lavorando in cucina, assistendo le sorelle ammalate, soffrì molto per le incomprensioni sorte con l’avvento di una nuova priora proveniente da un altro Carmelo, ebbe molte estasi e visioni che la confortavano nelle sue lunghe malattie e sofferenze.
Per la cagionevole salute fu trasferita nel Carmelo di Pontoise il 7 dicembre 1616 e qui dopo lunga malattia rese l’anima a Dio il 18 aprile 1618; il suo corpo riposa nella cappella dello stesso convento.
Le vicissitudini legate al decreto di papa Urbano VIII, fecero sì che la causa di beatificazione venisse ripresa e aperta solo nel 1782 e conclusa con la cerimonia di beatificazione da parte di papa Pio VI il 5 giugno 1791.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: Nell’isola di Égina, santa Atanasia, vedova e poi eremita ed egumena, insigne per l’osservanza della disciplina monastica e per le virtù.
Le vicende di Atanasia sono narrate in due Vitae sostanzialmente identiche, una greca e una latina. La prima, attribuita, forse a torto, a Simeone Metafraste, è nel cod. vat, greco n. 1660, dell'anno 916 ca. (ff. 211-228); la seconda nelle opere di Lippomano e di Surio, donde passò negli Acta SS. Augusti.
Secondo la Vita Atanasia visse nel sec. IX nell'isola di Egina in Grecia. Ancora fanciulla si distinse per le sue virtù. Sebbene desiderasse consacrarsi a Dio, tuttavia, per obbedire ai genitori, si sposò. Morto il marito in guerra, Atanasia fu costretta a risposarsi, ma convinse il secondo marito alla astinenza coniugale. In seguito, entrato costui in un monastero, dove morì, Atanasia, raccolto intorno a sé un certo numero di vergini, si diede a vita monastica. Fu eletta superiora (egumena) e maestra di spirito. Volendo, tuttavia, servire Dio in maggior solitudine, si rinchiuse in una cella attigua alla chiesa di Santo Stefano, dove morì dopo aver esortato le consorelle a generosa carità verso i poveri.
La santa non deve confondersi né con l'omonima moglie di sant'Andronico celebrata il 9 ottobre, né con la compagna di santa Matrona che non sembra sia stata mai onorata da alcuna Chiesa. Nei sinassari Atanasia è commemorata il 18 aprile; nel Martirologio Romano il 14 agosto.
Autore: Marko Japundzic Fonte:Enciclopedia dei Santi
1090/1100 - 1167
Si tratta di un celebre abate che dal 1155 guidò l'abbazia cistercense delle Dune. Nato verso il 1090, si pensa che appartenga alla famiglia nobile dei van der Gracht, signori di Moorsel nella Fiandra occidentale. Entrò nel 1150 nella celebre abbazia dopo essere rimasto vedovo, morì nel 1167. Fu seppellito nel capitolo della chiesa in una bara di piombo. Nel 1577 l'abbazia fu devastata e i monaci trasportarono il suo corpo nel rifugio alla fattoria di Bogaerde. Nel 1623 fu effettuata una ricognizione e la bara fu aperta davanti a molti testimoni, il corpo fu trovato intatto. Nel 1796 fu trasportato al sicuro da Bruges dov'era, per salvarlo dalle truppe rivoluzionarie e infine nel 1830 fu deposto nella cappella dell'ospedale della Potterie presso l'abbazia dove è tuttora. Il suo culto è stato approvato nel 1894. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Bruges nelle Fiandre, nell’odierno Belgio, beato Idesbaldo, abate, che, rimasto presto vedovo ed esercitati per altri trent’anni incarichi nel palazzo dei conti, entrò in età matura nel monastero di Down, che resse santamente come terzo abate per dodici anni.
Si tratta di un celebre abate dal 1155 dell’abbazia delle Dune cistercense, nato verso il 1090, si pensa che appartenga alla famiglia nobile dei van der Gracht, signori di Moorsel nella Fiandra occidentale.
Entrò nel 1150 nella celebre abbazia dopo essere rimasto vedovo, morì nel 1167 in grande fama di santità, fu seppellito nel capitolo della chiesa in una bara di piombo.
Nel 1577 i Gueux (nome dispregiativo dei nobili fiamminghi, vuol dire in francese ‘pezzenti’) devastarono l’abbazia ed i monaci furono costretti a trasportare il suo corpo nel rifugio alla fattoria di Bogaerde.
Nel 1623 fu effettuata una ricognizione e la bara fu aperta davanti a molti testimoni, il corpo fu trovato intatto. Per diversi giorni fu esposto alla venerazione dei fedeli che accorsero in massa, molte guarigioni avvennero in quell’occasione e il suo culto si estese sempre più.
Ancora nel 1796 fu trasportato al sicuro da Bruges dov’era, per salvarlo dalle truppe rivoluzionarie e infine nel 1830 fu deposto nella cappella dell’ospedale della Potterie presso l’abbazia dove è tuttora.
Il suo culto è stato approvato nel 1894 con decreto della Diocesi di Bruges.
Autore: Antonio Borrelli
m. 19 aprile 1040
Visse in Germania. Adamo di Brema ci dice che fu sorella del vescovo di Paderbon e moglie di Liutgero di Sassonia. Rimasta vedova in giovane età, senza figli, in una condizione assai scomoda ed esposta a mille insidie, donò le sue grandi sostanze ai poveri, a cui si dedicò per tutta la vita.
Etimologia: Emma = gentile, fraterna, nutrice, dall'antico tedesco
Nel monastero di S. Ludgero a Werden, nella Ruhr, presso Dusseldorf, inspiegabilmente lontano dalla Sassonia, si conserva una reliquia della santa: una mano prodigiosamente intatta.
Un cronista tedesco dello stesso secolo, Adamo di Brema, nella sua Storia ecclesiastica, ci dà notizia di una "nobilissima senatrix Emma", sorella di Meinwerk, vescovo di Paderborn (morto nel 1036) e moglie del conte Ludgero di Sassonia. Rimasta vedova, ancor giovane e bella, ricca e senza figli, non ambì a seconde nozze e si mantenne costante nel suo nuovo programma di vita, fondato sulla totale dedizione alle opere di carità.
Generosa nel donare e nel soccorrere, ma austera e intransigente con se stessa, puntò alla perfezione nel difficile stato di vedovanza, una condizione assai scomoda per una donna, rimasta sola ma non libera, esposta a mille insidie perché priva di appoggio e fatta segno, se ricca, dei calcoli interessati di parenti vicini e lontani. "Sei tu giovane? - si legge in una infervorata predica di S. Bernardino da Siena, rivolta alle vedove cristiane - fa' che tu imbrigli la carne tua in discipline. Io voglio che tu impari a vivere come una religiosa. Sii verace, dentro nell'anima tua. Vuoi marito? Va' e piglialo, in nome di Dio, e spacciatene. Ma non avrai mai consolazione. Dunque, non ci vedi meglio che di rimanere vera vedova, e servire a Dio in ogni modo che tu puoi, tutto il tempo della tua vita". Emma aveva scelto quest'ultima maniera di tendere alla perfezione, la più difficile e rara. La sua mano, giunta fino a noi intatta dopo nove secoli e mezzo dalla morte di questa santa dal nome fresco e pieno, è un segno emblematico della sua più cospicua virtù: la generosità. Anzitutto una generosità fattiva, di opere più che di parole.
Vera ancella di Cristo, ella ha servito il suo celeste sposo con la preghiera e la carità, meritando la devozione non di un marito ma di milioni di cristiani che da oltre nove secoli la onorano di culto pubblico. Il suo corpo, privo della mano di cui si è parlato, riposa nella cattedrale di Brema.
Autore: Piero Bargellini
+ Tyburn, Inghilterra, 19 aprile 1602
Nasce a Gilfortrigs in Inghilterra e cresce nella fede protestante. Da giovane diventa apprendista stampatore a Londra e venendo a contatto con il libro «Il fondamento della religione cattolica», che lo porta alla conversione. Affrontando con coraggio tutte le difficoltà viene mandato in prigione per due volte ed entrambe le volte lo stampatore presso cui lavora lo aiuta ad uscire, ma alla fine gli chiede di trovarsi un altro lavoro. Dopo essere stato accolto dalla Chiesa cattolica sposa una vedova. Dal matrimonio nascerà un figlio che si farà monaco. James si impegna a fondo per la diffusione della stampa cattolica. A causa di questa attività passa nove, dei suoi dodici anni di matrimonio, in prigione. Alla fine viene condannato a morte a causa di un testimone che dichiara di aver procurato libri cattolici a Duckett. Ma la testimonianza costerà la vita a entrambi: James Duckett venne impiccato nel 1602. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, beato Giacomo Duckett, martire, che, uomo sposato, tradíto perché vendeva testi cattolici nella sua bottega libraria, fu tenuto per nove anni in carcere e infine impiccato a Tyburn sotto la regina Elisabetta I insieme al suo delatore, che egli ormai in punto di morte invitò a morire da cattolico.
James Duckett nacque a Gilfortrigs in Inghilterra da una famiglia protestante, nella cui fede fu allevato. In giovane età divenne apprendista stampatore a Londra ed in tale ambiente venne provvidenzialmente a contatto con il libro “Il fondamento della religione cattolica”, che lo portò ben presto a maturare la decisione di convertirsi al cattolicesimo. Affrontò con coraggio qualsiasi difficoltà potesse comportare tale scelta, per la quale venne imprigionato per due volte consecutive. Entrambe le volte il suo datore di lavoro lo aiutò ad uscire, ma alla fine gli chiede di trovarsi un’altra occupazione, visti i numerosi problemi che gli aveva causato.
Dopo essere stato accolto in seno alla Chiesa cattolica, convolò a nozze con una vedova e da questo matrimonio nacque poi un figlio che si sarebbe fatto monaco. James continuò ad impegnarsi a fondo per la diffusione della stampa cattolica, ma a causa di questa attività trascorse ben nove dei suoi dodici anni di matrimonio in condizione di prigionia. Fu infine condannato a morte in base alla testimonianza di un conoscente che affermò di aver procurato dei libri cattolici al signor Duckett. Ma tale ambigua testimonianza costò la vita ad entrambi: James Duckett venne impiccato presso Tyburn il 19 aprile 1602.
Nell’anniversario del suo glorioso martirio ancora oggi James Duckett è commemorato dal Martyrologium Romanum, nel quale fu inserito dopo la beatificazione avvenuta il 15 dicembre 1929 da parte del pontefice Pio XI, unitamente ad un folto gruppo di martiri inglesi e gallesi capeggiati dal sacerdote Thomas Hemmerford.
Autore: Fabio Arduino
Il Beato Francesco Page, non è sposato, ma ho deciso di inserirlo dopo diverse riflessioni, perché innamoratissimo della sua fidanzata, accettò di iniziare un cammino di conversione al cristianesimo solo per poterla sposare... ed invece questo cammino lo condusse verso la santità!
Anversa, 1575? - Londra, 20 aprile 1602
Apparteneva a una aristocratica e ricca famiglia inglese del Middlesex, ma nacque in Belgio, ad Anversa, nella seconda metà del XVI secolo. Fu allevato nel protestantesimo e studiò diritto a Londra dove intraprese la carriera di avvocato presso un noto studio legale, dove si innamorò della figlia cattolica del suo datore di lavoro. La giovane gli disse che avrebbe acconsentito a sposarlo solo se si fosse convertito al cattolicesimo: lui accettò la proposta. Allora lei, affinché Francesco potesse avere la necessaria istruzione religiosa, gli fece conoscere il suo direttore spirituale, il gesuita Giovanni Gerard, allora in prigione a causa della persecuzione che infieriva in quel tempo contro i sacerdoti rimasti fedeli alla Chiesa romana. I due diventarono amici, e l’insegnamento e l’esempio del maestro, nonché lo zelo posto dal neofita, furono tali che Francesco non solo si convertì ma decise di diventare sacerdote. Così il prospettato vantaggioso matrimonio andò in fumo; e con esso, il giovane rinunciò anche a tutti i suoi beni. Le continue visite alla prigione condussero al suo arresto; subito dopo essere stato liberato chiese di essere ammesso al Collegio Inglese di Douai, al di qua della Manica, dove entrò nel 1598. Ordinato sacerdote due anni dopo, tornò in patria, dove, in attesa di recarsi nelle Fiandre a fare il noviziato essendo stata accettata la sua richiesta di entrare nella Compagnia di Gesù, poté esercitare nascostamente per due anni il suo ministero a Londra grazie all’ospitalità della pia vedova Anna Line - morta martire e festeggiata il 27 febbraio - che aveva messo la sua casa a disposizione di padre Giovanni Gerard e di altri sacerdoti. Un giorno, mentre Francesco Page celebrava la Messa in quella casa, irruppero all’improvviso i persecutori anticattolici; riuscì a malapena a fuggire e riprese il suo apostolato nascondendosi altrove; ma poco dopo la delazione di una donna apostata, che si era unita per denaro ai cacciatori di preti, portò al suo arresto. Rinchiuso nelle prigioni di Newgate con l’accusa di essere un sacerdote cattolico e di aver celebrato la Messa in Inghilterra, fu processato quasi subito e condannato a morte. Mentre era in carcere fu accolto tra i Gesuiti. Salì con grande serenità sul patibolo a Londra il 20 aprile 1602, proclamandosi pubblicamente "figlio della Chiesa cattolica e di sant’Ignazio" e dichiarando di essere lieto di morire per una buona causa: «Cioè - spiegò - per la mia fede e il sacerdozio e per aiutare ad assistere attraverso il mio ministero le anime del prossimo». Dopo l’impiccagione, come era barbaro uso il suo corpo fu sventrato e squartato. Francesco Page fu innalzato agli onori degli altari da Pio XI nel 1929.
Martirologio Romano: A Londra sempre in Inghilterra, beati Francesco Page, della Compagnia di Gesù, e Roberto Watkinson, sacerdoti e martiri, che per il loro sacerdozio, per uno dei quali iniziato da appena un mese, furono costretti, sotto la regina Elisabetta I, a salire insieme sul patibolo di Tyburn.
La storia delle persecuzioni anticattoliche in Inghilterra, Scozia, Galles, parte dal 1535 e arriva al 1681; il primo a scatenarla fu come è noto il re Enrico VIII, che provocò lo scisma d’Inghilterra con il distacco della Chiesa Anglicana da Roma.
Artefici più o meno cruenti furono oltre Enrico VIII, i suoi successori Edoardo VI (1547-1553), la terribile Elisabetta I, la ‘regina vergine’ († 1603), Giacomo I Stuart, Carlo I, Oliviero Cromwell, Carlo II Stuart.
Morirono in 150 anni di persecuzioni, migliaia di cattolici inglesi appartenenti ad ogni ramo sociale, testimoniando il loro attaccamento alla fede cattolica e al papa e rifiutando i giuramenti di fedeltà al re, nuovo capo della religione di Stato.
Primi a morire come gloriosi martiri, il 4 maggio e il 15 giugno 1535, furono 19 monaci Certosini, impiccati nel tristemente famoso Tyburn di Londra, l’ultima vittima fu l’arcivescovo di Armagh e primate d’Irlanda Oliviero Plunkett, giustiziato a Londra l’11 luglio 1681.
L’odio dei vari nemici del cattolicesimo, dai re ai puritani, dagli avventurieri agli spregevoli ecclesiastici eretici e scismatici, ai calvinisti, portò ad inventare efferati sistemi di tortura e sofferenze per i cattolici arrestati.
In particolare per tutti quei sacerdoti e gesuiti, che dalla Francia e da Roma, arrivavano clandestinamente come missionari in Inghilterra per cercare di riconvertire gli scismatici, per lo più essi erano considerati traditori dello Stato, in quanto inglesi rifugiatosi all’estero e preparati in opportuni Seminari per il loro ritorno.
Tranne rarissime eccezioni come i funzionari di alto rango (Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Margherita Pole) decapitati o uccisi velocemente, tutti gli altri subirono prima della morte, indicibili sofferenze, con interrogatori estenuanti, carcere duro, torture raffinate come “l’eculeo”, la “figlia della Scavinger”, i “guanti di ferro” e dove alla fine li attendeva una morte orribile; infatti essi venivano tutti impiccati, ma qualche attimo prima del soffocamento venivano liberati dal cappio e ancora semicoscienti venivano sventrati.
Dopo di ciò con una bestialità che superava ogni limite umano, i loro corpi venivano squartati ed i poveri tronconi cosparsi di pece, erano appesi alle porte e nelle zone principali della città.
Solo nel 1850 con la restaurazione della Gerarchia Cattolica in Inghilterra e Galles, si poté affrontare la possibilità di una beatificazione dei martiri, perlomeno di quelli il cui martirio era comprovato, nonostante i due-tre secoli trascorsi.
Nel 1874 l’arcivescovo di Westminster inviò a Roma un elenco di 360 nomi con le prove per ognuno di loro.
A partire dal 1886 i martiri a gruppi più o meno numerosi, furono beatificati dai Sommi Pontefici, una quarantina sono stati anche canonizzati nel 1970.
Francesco Page nacque ad Anversa in una nobile e ricca famiglia di Harrow-on-the-Hill nel Middlesex, allevato nel protestantesimo studiò Diritto a Londra, dove intraprese la professione presso lo studio legale di un celebre avvocato, del quale avrebbe potuto sposare la figlia, se avesse però accondisceso a convertirsi alla religione cattolica.
La conveniente proposta fece sì che Francesco aderì alla richiesta e fu presentato dalla ragazza al suo direttore spirituale, il gesuita padre Giovanni Gerard, detenuto però nelle carceri di Clink.
Fu tanto profondo l’approccio con la nuova dottrina, che Francesco Page rinunciando al prospettato matrimonio, volle addirittura votarsi allo stato ecclesiastico e lasciando tutti i suoi beni temporali.
Chiese così di essere ammesso al Collegio inglese di Douai in Francia, dove venivano preparati per il loro ritorno in Inghilterra, gli aspiranti sacerdoti cattolici fuggiti dalle persecuzioni in atto.
Entrò a Douai il 9 febbraio 1598 sotto il nome fittizio di John Hickman, venne ordinato sacerdote il 1° aprile 1600 e ritornò quasi subito in patria; espletò il suo ministero per due anni con circospezione e zelo nella stessa Londra, ospite della pia vedova Anna Line (martirizzata poi il 27 febbraio 1601).
Avendo richiesto di entrare nella Compagnia di Gesù, fu accolto e inviato nelle Fiandre a fare il noviziato; scampò una prima volta all’arresto in casa della vedova Line, ma poi tradito da una malvagia donna apostata, fu catturato dai cacciatori di preti.
Rinchiuso nelle prigioni di Newgate venne processato quasi subito e condannato senz’altro alla pena capitale per impiccagione perché sacerdote.
Facendo la volontà di Dio, padre Francesco Page salì il patibolo del Tyburn di Londra il 20 aprile 1602, con grande serenità e coraggio, proclamando pubblicamente di essere figlio della Chiesa Cattolica e di s. Ignazio.
Fu beatificato da papa Pio XI il 15 dicembre 1929, insieme ad altri 106 martiri inglesi.
Autore: Antonio Borrelli
Bella la storia di Santa Sara e del battesimo dei suoi due figli
Moglie di Socrate, ufficiale di Diocleziano, subì il martirio del rogo con i suoi due figli perché li aveva fatti battezzare dopo un avventuroso viaggio, compiuto a tale scopo, ad Alessandria d'Egitto.
Emblema: Palma
La ‘Vita’ di questa santa martire, ci mostra come è saldo il credo nel valore definitivo del Battesimo, quando è amministrato validamente. Unica fonte che racconta la sua vita è il ‘Sinassario Alessandrino’ che la commemora al 20 aprile; Sara era la moglie di un alto ufficiale dell’armata dell’imperatore Diocleziano, di nome Socrate, allora residenti ad Antiochia e ambedue cristiani, ma Socrate per timore, rinnegò la fede cristiana, mentre Sara invece continuò fedelmente a professarla.
Avuti due figli, ella esitò a farli battezzare ad Antiochia, pertanto decise di recarsi ad Alessandria per farlo lì, s’imbarcò con i due figli con questo scopo, ma la traversata fu travagliata a causa del mare agitato e ad un certo punto, infuriata ancora di più la tempesta, si ebbe il timore di un naufragio.
In preda all’ansia per la salvezza dei suoi figli, sia corporale che spirituale, Sara si fece con un coltello un’incisione sul petto e con il sangue che scorreva, segnò con un segno di croce sulla fronte i due bambini e poi li immerse per tre volte nell’acqua del mare, invocando con una formula la SS. Trinità.
Passata la tempesta, il mare si calmò e il viaggio proseguì fino ad Alessandria d’Egitto, giunta lì Sara si recò dal vescovo s. Pietro (300-310) per fare battezzare i figli, non ritenendo sufficiente il gesto fatto.
Il vescovo stava proprio amministrando il Battesimo a dei fedeli e lei si mise in fila con i due figlioletti ad aspettare il loro turno; avvicinatosi, l’acqua del catino improvvisamente si ghiacciò, a questo punto Sara si mise da parte e per tre volte tentò di accostarsi e ogni volta l’acqua si ghiacciava, allora il vescovo al termine della cerimonia si avvicinò e le chiese spiegazioni, ascoltata la peripezia del viaggio e il rito urgente fatto, rassicurò Sara sulla validità del Battesimo, da lei somministrato nel momento del pericolo e che quindi era inutile ripetere.
Allora Sara ripartì per Antiochia; giunta a casa raccontò l’episodio al marito Socrate, il quale a sua volta lo raccontò a Diocleziano; l’imperatore fece convocare Sara e l’interrogò in modo così brutale che ella, dopo una sola risposta si chiuse in un mutismo completo.
Preso dall’ira Diocleziano la condannò ad essere arsa viva insieme ai due figli.
Unica santa con questo nome; mentre il nome stesso ci riconduce a Sara moglie di Abramo, che generò Isacco per volere di Dio, a novant’anni.
Il nome deriva dall’ebraico Sarah e significa ‘principessa, signora’ ed è abbastanza diffuso in Italia, divenendo uno dei più preferiti.
Autore: Antonio Borrelli
+ Lancaster, Inghilterra, 20 aprile 1584
Il B. Giovanni Finch, sposato e ricco proprietario di Eccleston (Lancashire), fu martirizzato a Lancaster, dopo molti anni di duro carcere, perché conduceva i sacerdoti da una famiglia all'altra, da un villaggio all'altro, prendeva parte alla celebrazione della Messa e negava alla regina la supremazia spirituale. Alla sua impiccagione fu presente il B. Giacomo Bell, prete apostata per vent'anni. Dopo una grave malattia si era pentito del suo peccato ed era diventato il padre dei poveri. Tradito da una spia, fu impiccato il giorno dopo il signor Finch. Alla sua sentenza di morte avrebbe voluto che fosse aggiunto l'ordine del taglio delle labbra e delle dita con cui aveva giurato e sottoscritto gli articoli eretici. Furono beatificati nel 1929.
Martirologio Romano: A Lancaster in Inghilterra, beati Giacomo Bell e Giovanni Finch, martiri: il primo, sacerdote, dopo venti anni trascorsi in altra confessione, su esortazione di una pia donna si riconciliò con la Chiesa cattolica; l’altro, padre di famiglia, contadino e catechista, per la sua fede subì per molti anni il carcere, la fame e altre sofferenze; entrambi pervennero insieme all’eterno gaudio sotto la regina Elisabetta I.
Un bell'esempio di Padre che trasmette la fede al figlio, il grande Origene!
Etimologia: Leonida = simile al leone, forte, dal greco
Emblema: Palma
Martirologio Romano: Ad Alessandria d’Egitto, commemorazione di san Leonida, martire, che sotto l’imperatore Settimio Severo fu trafitto con la spada per la fede in Cristo, lasciando Origene, suo figlio, ancora bambino.
L'editto di Settimio Severo, come dice Clemente Alessandrino, riempí l'Egitto di martiri: tra questi Eusebio nomina Leonida che ebbe il capo troncato nel 204, lasciando orfani sette figli, il maggiore dei quali, appunto Origene, aveva appena diciassette anni.
Nel narrare la vita di quest'ultimo poi, il medesimo storico si sofferma lungamente a descrivere le cure con le quali Leonida educò il figlio allo studio della S. Scrittura prima che a quello delle lettere, come ringraziasse Iddio di aver avuto un figlio cosí precocemente entusiasta di quegli studi, come riconoscesse la mano di Dio nel fanciullo, e di notte, quando questi dormiva, si soffermasse a baciargli il petto quasi fosse un sacrario dello Spirito Santo. Lo stesso Eusebio ci ha conservato un frammento della lettera che il figlio diciassettenne gli inviò in prigione per esortarlo al martirio.
Nella letteratura agiografica greca, il nome di Leonida, padre di Origene, appare in mezzo ad un gruppo di dieci martiri celebrati il 5 giugno: ma le cose che si raccontano di essi sono frutto piú di immaginazione che di indagine storica. Chi forgiò quelle tradizioni non immaginò che quel Leonida fosse appunto il padre di Origene di cui parlava già Eusebio. Il Martirologio Romano, invece, celebra Leonida al 22 aprile, giacché il Baronio credette di ravvisare il nome del nostro nel Geronimiano a questa data, dove invece è celebrato l'omonimo martire di Corinto.
Autore: Giovanni Lucchesi Fonte:Enciclopedia Dei Santi
† Nicomedia (Bitinia), 18 e 22 aprile 303
Etimologia: Alessandra = forma femminile di Alessandro, protettrice degli uomini, dal greco
ALESSANDRA, APOLLO, ISACCO, CODRATO
Il nome Alessandra è il femminile di Alessandro; deriva dal greco ‘Aléxandros’ e significa “protettrice degli uomini”.
Il nome è sempre stato usato fin dall’antichità e della versione maschile si ricordano due re dell’Epiro, tre re di Macedonia, due re di Siria, un imperatore romano, otto papi, oltre 40 santi, tre re di Scozia, tre imperatori di Russia, ecc.
Nella versione femminile, il nome Alessandra è stato portato oltre che da sei fra regine e imperatrici, anche da cinque cristiane martiri, curiosamente sempre inserite in altrettanti gruppi di martiri.
Il più noto dei quali è quello di Amiso (Alessandra, Claudia, Eufrasia, Matrona, Giuliana, Eufemia e Teodosia) celebrate il 20 marzo; poi c’è il gruppo delle martiri di Ankara (Tecusa, Giulitta e altre) celebrate il 18 maggio; poi c’è il gruppo di Ancira, il gruppo di Antiochia e infine il gruppo di Nicomedia di cui parliamo in queste note.
Bisogna dire che per quanto poco noto, il gruppo dei martiri di Nicomedia, composto da Alessandra, Apollo, Isacio (Isacco) e Codrato (Crotato) è menzionato da un numero rilevante di fonti agiografiche, sono ben 11 i Martirologi, Sinassari, Menologi, orientali ed occidentali che ne parlano; si evita qui di elencarli tutti.
Secondo una ‘passio’ armena, connessa al ciclo delle storie di s. Giorgio martire, Alessandra, ritenuta moglie leggendaria di Diocleziano, a volte di Daziano re persiano, per aver difeso e perorato con eccessivo zelo la causa dei cristiani, perseguitati per la loro fede, finì per incorrere nelle ire dell’imperatore, il quale dopo averla percossa e torturata di sua mano, la fece decapitare il 18 aprile del 303, primo anno della sua violenta e sanguinaria persecuzione.
Uguale sorte subirono nei giorni seguenti, Apollo, Isacco e Codrato, probabilmente domestici o funzionari di Alessandra; sebbene fossero legati da vincoli di varia natura con la Casa imperiale, non fu risparmiato loro il tormento della fame e infine la decapitazione.
Le condanne furono eseguite a Nicomedia in Bitinia, dove Diocleziano aveva stabilito la sua residenza imperiale.
I Sinassari orientali affermano che essi si erano convertiti al cristianesimo, considerando fra loro il coraggio con cui il martire s. Giorgio di Lydda, loro contemporaneo, aveva affrontato il martirio in Palestina.
La memoria dei martiri sopra menzionati, è celebrata secondo i vari testi in date diverse, dove il 21 e dove il 22 aprile; le successive aggiunte o presunte precisazioni, sui luoghi e sui fatti della vita e del martirio dei suddetti santi, si colorarono di leggenda e di mancanza di fondamenti storici.
Autore: Antonio Borrelli
Interessante il Beato Adaberto, sposo di Santa Regina e padre di 10 figli di cui la primogenita è anch'essa santa (Santa Ragenfreda)
+ 22 aprile 790 ca.
Etimologia: Adalberto = di illustre nobiltà, dal tedesco
Visse nel sec. VIII, ma poche sono le notizie certe intorno alla sua vita. Nato da illustre casato, fu un ricchissimo signore della corte carolingia e sposò s. Regina, nipote di Pipino il Breve, dalla quale pare che abbia avuto dieci figlie. La primogenita, Ragenfreda o Reinfreda, è venerata come santa. Adalberto fu di una inesauribile carità e fondò per le figlie un monastero a Denain (Nord), nel quale alla sua morte, avvenuta il 22 apr. 790 ca., fu sepolto. Il Proprio (a. 1625) dell'abbazia di Denain contiene tre lezioni nell'officiatura a lui dedicata il 22 apr. col titolo di beato; però qualche martirologio che lo commemora gli attribuisce il titolo di santo.
Autore: Roger Desreumaux Fonte: Enciclopedia dei Santi
Udine, 1396/7 - 23 aprile 1458
Tra le penitenze che la beata friulana Elena Valentini si infliggeva vi erano trentatré sassolini messi nelle scarpe. Il numero simbolico rimanda già alla spiegazione che lei dava: «Per amore de' balli che in lo secolo faceva (io facevo ndr), offendendo el mio Signore, e per amore che il mio dolze Iesu trentatré anni per mio amore per lo mondo caminò». La donna, nata a Udine nel 1396 nella famiglia dei signori di Maniago, era divenuta terziaria agostiniana dopo essere rimasta vedova. A 18 anni infatti era andata in sposa al nobile Antonio Cavalcanti, al quale aveva dato sei figli. Poi la scelta religiosa, sollecitata dalla predicazione dell'Agostiniano Angelo di San Severino. Elena visse 12 anni in casa con la sorella Perfetta, anch'ella terziaria agostiniana, nella più stretta penitenza: usciva solo per andare a pregare nella chiesa di Santa Lucia. Morì, dopo essere rimasta a lungo a letto per la frattura di entrambi i femori, nel 1458. È venerata nel duomo di Udine. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Udine, beata Elena Valentini, vedova, che, per servire Dio solo, operò laboriosamente nell’Ordine secolare di Sant’Agostino, dedicandosi alla preghiera, alla lettura del Vangelo e alle opere di misericordia.
Nata nel 1396 (o 1397) a Udine nella famiglia dei Valentini signori di Maniago, andò sposa verso il 1414 al nobile Antonio Cavalcanti, al quale diede sei figli. Rimasta vedova nel 1441, decise di ritirarsi dal mondo e, sotto l'influenza della vibrante parola dell'agostiniano Angelo da S. Severino, si fece terziaria agostiniana. Anche dopo aver emesso la professione, continuò a vivere nella casa lasciatale dal marito, fino al 1446, quando andò a stabilirsi dalla sorella Perfetta, anch'essa da poco terziaria agostiniana.
Condusse sempre una vita di penitenza e di rigorosa mortificazione, nutrendosi per lo più di solo pane e acqua, dormendo sopra un duro giaciglio di sassi, ricoperti appena da un sottile strato di paglia, flagellandosi continuamente a sangue per tutto il corpo e camminando con trentatré sassolini nelle scarpe “per amore de’ balli e danze che in lo secolo faceva offendendo el mio Signore, e per amore che il mio dolze Iesu trentatré anni per mio amore per lo mondo caminò”.
In tutte le diverse forme di penitenza a cui volle sottoporsi, ella fu sempre ispirata dal duplice motivo della imitazione di Cristo e dell'antitesi alla sua precedente esistenza mondana, pur se talvolta non mancarono profonde crisi di sconforto e di stanchezza, a cui seppe reagire con grande forza d'animo, chiusa in una piccola cella nella sua stessa casa, da cui usciva soltanto per recarsi a pregare e a meditare nella sua diletta chiesa di S. Lucia. A supremo conforto nella sua vita di completa rinuncia e di lotta, ebbe estasi e celesti visioni, gratificata inoltre da Dio del dono dei miracoli e della conoscenza di cose occulte.
A causa della frattura di entrambi i femori trascorse gli ultimi anni sempre stesa nel suo povero e duro giaciglio in serena e paziente attesa della morte, che giunse il 23 aprile 1458.
Dopo diversi trasferimenti, le spoglie mortali della Beata trovarono nel 1845 la loro degna sede nel Duomo, dove sono tuttora esposte alla venerazione pubblica.
Il suo culto fu confermato nel 1848 da Pio IX.
La sua memoria liturgica ricorre il 23 aprile.
Autore: P. Bruno Silvestrini O.S.A.
Ebbene sì, le pie donne erano spose! Santa Maria di Cleofa era sposa di uno dei discepoli di Emmaus, cognata della madonna e madre di ben tre apostoli, Santa Salomé, che vediamo a seguire, invece era madre di altri due apostoli!
sec. I
Moglie di Cleopa (poi volgarizzato in Cleofa), era probabilmente una parente di Maria Santissima. I suoi figli furono chiamati “fratelli” di Gesù, termine semitico, che indicava anche i cugini. Ella è conosciuta anche come Maria Jacobi, poiché è considerata la madre di Giacomo, detto il Minore, che poi fu vescovo di Gerusalemme. Faceva parte del gruppo che seguivano il Signore per tutta la Galilea e S. Giovanni ce la presenta fra il coro delle “pie donne”, con la SS. Vergine e con Maria di Magdala, ai piedi di Gesù in croce. Maria di Cleofa rimase presso il Calvario dopo la morte del Redentore, assistette alla sua sepoltura, si recò con le altre donne al sepolcro e poté constatare la risurrezione di Gesù.
Etimologia: Maria = amata da Dio, dall'egiziano; signora, dall'ebraico
Martirologio Romano: A Gerusalemme, commemorazione delle sante donne Maria di Cleofa e Salomè, che insieme a Maria Maddalena vennero la mattina di Pasqua al sepolcro del Signore per ungere il suo corpo e per prime udirono l’annuncio della sua risurrezione.
Nelle grandiose vicende della Redenzione, durante il drammatico epilogo sul Calvario, un coro silenzioso e dolente di "pie donne" attende poco lontano che tutto sia compiuto: "Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala", dice l'evangelista S. Giovanni. Era il gruppo di coloro "che lo seguivano da quando era in Galilea per servirlo, e molte altre che erano venute da Gerusalemme insieme a lui". Tra le spettatrici, vi è dunque la santa odierna, la cui continua e vigile presenza accanto al Salvatore le ha meritato un posto particolare nella devozione dei cristiani, più ancora della sua parentela con la SS. Vergine e con S. Giuseppe.
Maria di Cleofa (denominata così dal nome del marito Cleopa o Cleofa) è ritenuta comunemente la madre dei "fratelli del Signore", termine semitico per indicare anche i cugini, Giacomo il Minore, apostolo e vescovo di Gerusalemme, e Giuseppe. Lo storico palestinese Egesippo dice che Cleofa era fratello di S. Giuseppe e padre di Giuda, Taddeo e Simone, eletto quest'ultimo a succedere a Giacomo il Minore nella sede episcopale di Gerusalemme.
L'identificazione di Alfeo con Cleofa, sostenuta prevalentemente dagli antichi, porta di conseguenza a ritenere Maria di Cleofa, cognata della Madonna, madre di ben tre apostoli. Cleofa-Alfeo è inoltre uno dei discepoli che il giorno della risurrezione di Gesù, recandosi nella nativa Emmaus, furono raggiunti e accompagnati da Gesù stesso, che riconobbero "alla frazione del pane".
Mentre il marito si allontanava da Gerusalemme, col cuore appesantito dalla malinconia e dalla disillusione, la moglie, Maria Cleofa, seguendo l'impulso del suo cuore, si affrettava alla tomba del Redentore per rendergli l'estremo omaggio dell'unzione rituale con vari unguenti. Il venerdì sera si era infatti attardata in compagnia della Maddalena per vedere "dove era stato messo". Dice l'evangelista S. Marco: "Intanto Maria di Magdala e Maria madre di Giuseppe stavano a osservare dove era stato messo".
Trascorso il sabato, di buon mattino, mentre il marito se ne tornava a casa, Maria di Cleofa e le altre compagne "comprarono dei profumi, poi andarono a fare su di lui le unzioni". Ma: "Non è qui, è risorto!", annunciò loro il messaggero divino. Alle "pie donne" andate al sepolcro con i loro unguenti e col loro dolore tocca il privilegio della più impegnativa testimonianza: "Perché cercate il vivente tra i morti?". Se Cristo non è risorto - dirà S. Paolo - la nostra fede non vale nulla e noi saremmo dei bugiardi. "Ma - soggiunge - Cristo è risorto ed è la primizia degli altri che ora dormono e risorgeranno". Questa lieta notizia fu data "agli Undici e a tutti gli altri" da poche donne, tra cui Maria di Cleofa.
Autore: Piero Bargellini
sec. I
Patronato: Veroli (FR)
Etimologia: Salomè = felice, dall'aramaico; pace, dall'ebraico
Martirologio Romano: A Gerusalemme, commemorazione delle sante donne Maria di Cleofa e Salomè, che insieme a Maria Maddalena vennero la mattina di Pasqua al sepolcro del Signore per ungere il suo corpo e per prime udirono l’annuncio della sua risurrezione.
La santa oggi festeggiata non ha nulla a che vedere con l’omonima donna citata dall’evangelista Marco (Mc 6, 21-28) quale mandante dell’omicidio di San Giovanni Battista. Santa Salomè, secondo il Martyrologium Romanum che fa riferimento alle esplicite citazioni evangeliche, fu con Santa Maria di Cleofa, anch’essa commemorata in data odierna, e Santa Maria Maddalena una delle prime discepole del Signore che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro ed ascoltarono così l’annunzio della Risurrezione.
Ecco i passi del Vangelo di Marco ove compare per due sole volte il nome di Salomè: “C’erano là anche alcune donne che osservavano a distanza, tra le altre: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il Minore e di Giuseppe e Salome” (Mc 15, 40) e “Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono aromi per andare a imbalsamare Gesù” (Mc 16, 1).
La tradizione è però solita identificare in Santa Salomè anche quella anonima donna citata due volte dall’evangelista Matteo quale moglie di Zebedeo e quindi madre degli apostoli Giacomo e Giovanni: “Tra esse c’era Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo” (Mt 27, 56) e “Allora la moglie di Zebedeo insieme con i suoi due figli si avvicinò a Gesù e si gettò ai suoi piedi per chiedergli qualcosa” (Mt 20, 20).
Un’ulteriore fantasiosa leggenda vorrebbe identificare Salomè anche con la suocera di San Pietro guarita da Gesù: “Subito dopo, uscirono dalla sinagoga e andarono a casa di Simone e di Andrea, insieme con Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto, colpita dalla febbre. Appena entrati, parlarono di lei a Gesù. Egli si avvicinò alla donna, la prese per mano e la fece alzare. La febbre sparì ed essa si mise a servirli”. (Mc 1, 29-31)
Le numerose leggende nate sul suo conto, come d’altronde anche sui vari altri personaggi evangelici, narrano che dopo l’Ascensione del Signore gli apostoli si misero in viaggio per annunziare il Vangelo agli altri popoli. Salomè, dopo un lungo pellegrinaggio in compagnia di San Biagio e San Demetrio giunse presso Veroli, oggi in provincia di Frosinone. La santa, stanca del viaggio, chiese ospitalità ad un pagano, poi battezzato con il nome Mauro, a poca distanza dalle mura della città. I suoi compagni entrarono invece nella città e subirono il martirio. Salomè rimase a casa di Mauro, lo convertì al cristianesimo e dopo circa sei mesi morì, il 3 luglio di un anno imprecisato.
Con riverenza Mauro raccolse le spoglie per la sepoltura, le racchiuse in una urna di pietra, sulla quale incise le parole: “Hae sunt reliquiae B. Mariae Matris apostolorum Jacobi et Joannis”. Impaurito dall’eventualità di subire anch’egli il martirio per mano pagana, Mauro trovò rifugio nella Grotta di Paterno, ove morì dopo tre giorni. Parecchio tempo dopo alcuni pagani trovarono l’urna contenente le reliquie della santa ed informarono il preside: questi, credendo vi fosse nascosto un tesoro, ordinò di aprirlo, vi trovò i resti della santa, ma senza fare attenzione all’epigrafe ordinò di con disprezzo di gettarli sulla piazza.
Nel frattempo un uomo greco pensò di salvare il prezioso tesoro dopo aver letto l’iscrizione e di notte furtivamente raccolse tutte le ossa, le avvolse in un panno e le portò fuori la Città presso le mura. Quindi sulla pietra e su una carta scrisse le parole: “Maria Mater Joannis Apostoli et Jacobi ene ista”. Infine nascose tutto fuori la città presso una rupe in attesa di portarsi l’urna nella sua patria, dopo che fosse tornato da un viaggio a Roma. Causa imprevisti l’uomo non poté però effettuare il suo progetto ed il corpo fu ritrovato nel 1209 da un certo Tommaso, a cui San Pietro e successivamente Santa Salomè apparvero in sogno e rivelarono la storia e il luogo della sepoltura.
Il ritrovamento avvenne il 25 maggio e “Tre giorni dopo furono presenti sul luogo il Vescovo di Penne, l’abate di Casamari e l’abate di Sant’Anastasia in Roma con alcuni suoi monaci. Mentre i due Vescovi sollevavano in alto le Reliquie per mostrarle alla folla convenuta in numero di quasi cinque mila uomini, da un osso della tibia si vide sgorgare vivo sangue, come non avviene per le ossa aride separate dalle carni da tanti anni. Nel vedere ciò, tutto il Popolo rese grazie a Dio”. La testa e le braccia furono legate in teche di argento e conservate nella tesoreria della cattedrale, mentre le altre ossa furono messe in una piccola urna che venne custodita sotto l’altare del piccolo oratorio che venne edificato sul luogo del ritrovamento. Più tardi si costruì sopra l’oratorio l’attuale basilica. Durante il terremoto del 1350 la chiesa subì gravi danni e le reliquie furono traslocate nella Cattedrale, per tornare di nuovo alla basilica nel 1742.
Autore: Fabio Arduino
XVII secolo
San Sava Brancovici nacque ad Inau intorno al 1620 da una famiglia serba dell'Herzegovina. Al battesimo ricevette il nome di Simeone. Entrò nel monastero di Comana in Bucharest. Sposatosi, divenne sacerdote, finché nel 1656 fu eletto metropolita di Ardeal. Morì il 24 aprile 1683. Festeggiato con Sant'Elia Iorest al 24 aprile, questi santi metropoliti furono accomunati anche dalla lotta al protestantesimo che in quel tempo penetrava in Transilvania.
Autore: Fabio Arduino
25 aprile e 15 aprile
Hunaweier, Alsazia, VII secolo
Patronato: Lavandaie
Le notizie pervenutaci su santa Hunna, provengono dalla “Vita Deodati”, scritta però tre secoli e mezzo dopo la sua esistenza; non esistono altri documenti, epigrafi, liturgie, anteriori a questa ‘Vita’ dell’XI secolo, narrante le imprese di s. Deodato vescovo pellegrino scozzese e per alcuni versi anche leggendaria.
Hunna e suo marito Hunon, signore franco, vissero a Hunaweier in Alsazia nel VII secolo. Qui edificarono una chiesa in onore dell’apostolo s. Giacomo il Maggiore, che poi lasciarono in eredità all’abbazia di St-Dié.
È molto probabile che i signori di Hunaweier, si fossero stabiliti su delle terre che un tempo erano appartenute ad una colonia romana, e sulle quali si trovava un piccolo stabilimento termale; questo permise loro di aver cura dei malati e dei poveri che venivano a rifugiarsi tra le rovine delle antiche terme.
Come i loro parenti, i duchi d’Alsazia, protessero i monaci scozzesi di s. Colombano, itineranti nella regione alsaziana (il territorio, nei secoli è appartenuto, secondo le vicende politiche, di volta in volta sia alla Francia che alla Germania, oggi è francese) e tra i quali ci fu il già citato s. Deodato vescovo, il quale secondo la ‘Vita’, battezzò il loro figlio, chiamato in suo onore anch’egli Deodato, che diventerà poi un santo monaco a Ebersheimmünster.
Hunna e Hunon furono parenti anche di s. Sigismondo re di Borgogna; la ‘Vita Deodati’ considera Hunon quale principale benefattore di St-Diè e Hunna è nominata solo come sua sposa; ma nella tradizione popolare successiva, Hunna assumerà il ruolo più importante fra i due pii coniugi, per la sua intensa vita di carità, continuata negli anni della sua vedovanza, fino alla sua morte avvenuta nel 679.
Nel 1520, su richiesta di Ulrico, duca di Württemberg, signore del luogo, del vescovo di Basilea e dei canonici di St-Dié, papa Leone X autorizzò la ‘elevazione’ dei resti di Hunna, conservati a Hunaweier (la cerimonia, nel primo millennio, costituiva l’attuale canonizzazione del venerato personaggio, sia pure proclamato santo nell’ambito della diocesi richiedente).
Ma dopo poco tempo, il duca Ulrico (1487-1550), passò alla Riforma Protestante e già nel 1540 le reliquie di santa Hunna furono profanate e disperse dagli abitanti del luogo, diventati seguaci del riformatore protestante Hulrico Zwinglio (1484-1531).
Nel 1865 la diocesi di Strasburgo, attuale capoluogo del Dipartimento francese del Basso Reno, che comprende l’Alsazia, poté iscrivere nel Libro (Proprio) liturgico, la festa della santa vedova al 25 aprile, giorno della commemorazione dell’’elevazione’ del 1520. Altre zone dell’Alsazia la ricordano in giorni diversi, come il 15 aprile.
Per un prodigio operato da s. Diodato, che fece sgorgare l’acqua da una sorgente vicino alla chiesa, per favorire la vedova Hunna che lavava personalmente i panni dei poveri, ella è considerata la patrona delle lavandaie.
Autore: Antonio Borrelli
Siena, 28 febbraio 1245 - Siena, 26 aprile 1309
Nacque a Siena il 28 febbraio 1245 dal nobile Pietro Francesco Ponzi e da Agnese Bulgarini. Alda, dopo una buona educazione, fu data in sposa al concittadino Bindo Bellanti, uomo «virtutibus ornatissimus», dal quale, però, non ebbe figli. Dopo la morte prematura del marito, Alda vestì l'abito del Terz'ordine degli Umiliati e si diede a vita penitente nella solitudine di una sua piccola proprietà. Passò gli ultimi anni nell'ospedale di Sant'Andrea, in seguito detto di Sant'Onofrio, dedicandosi al servizio dei poveri, degli infermi e dei pellegrini. Morì il 26 aprile 1309 e fu sepolta nella chiesa di San Tommaso in Siena, appartenente agli Umiliati. Il suo culto ebbe diffusione nell'Ordine degli Umiliati. (Avv.)
Etimologia: Alda = estremamente bella, dal celtico
Nacque il 28 febbraio 1245 dal nobile Pietro Francesco Ponzi e da Agnese Bulgarini, alla quale Dio aveva mostrato in sogno di aver scelto la nascitura per sé; dopo essere stata educata e istruita con ogni cura, fu data in sposa al concittadino Bindo Bellanti, uomo «virtutibus ornatissimus», dal quale, però, non ebbe figli. Dopo la morte prematura del marito, A. vestì l'abito del Terz'Ordine degli Umiliati e si diede, ancor più di prima, a far vita penitente nella solitudine di una sua piccola proprietà, dove operò miracoli ed ebbe estasi e visioni. Passò gli ultimi anni nell'ospedale di S. Andrea, che in seguito fu detto di S. Onofrio, dedicandosi tutta al servizio dei poveri, degli infermi e dei pellegrini.
Alda morì il 26 aprile 1309 e fu sepolta nella chiesa di S. Tommaso in Siena, appartenente agli Umiliati. Le sue ossa nel 1489 furono levate da terra e poste in una parete a lato di un altare, da dove nel 1583 furono trasferite.
Il suo culto, oltre che a Siena e in altre città, ebbe molta diffusione nell'Ordine degli Umiliati.
Autore: Pietro Burchi Fonte: Enciclopedia dei Santi
Una coppia di sposi contemporanea di San Francesco di cui vi consiglio vivamente di leggere questi pochi appunti per la ricchezza degli spunti di riflessione che riflettono dalla loro vita malgrado siano vissuti nel medio evo…
Toscana, 1181 – Poggibonsi, 28 aprile 1260
Lucchese nacque presso Poggibonsi (SI) lo stesso anno di S. Francesco d’Assisi (1181). In gioventù combattè per il partito dei Guelfi; ma poi, abbandonata la vita militare, si sposò con Bona Segni e si mise a commerciare in granaglie e fare il cambiavalute approfittando dei pellegrini che si recavano a Roma lungo la via Francigena. Nell’ottobre1212 Lucchese ebbe modo di ascoltare una predica di S. Francesco a S. Gimignano e da lì iniziò la sua conversione: risarcì tutti coloro che aveva impoveriti con i suoi traffici, fece penitenza, si mise al servizio dei frati, donò tutti i suoi beni e insieme alla moglie trasformò la sua casa in ospedale. Quando S. Francesco tornò in Valdelsa, nel 1221, donò a questa coppia di sposi l’abito della Penitenza, facendone i primi Terziari francescani.
Martirologio Romano: Presso Poggibonsi in Toscana, beato Lucchese, che, dapprima avido di lucro e poi convertito vestì l’abito del Terz’Ordine dei Penitenti di San Francesco, vendette i suoi beni e li distribuì ai poveri, servendo in povertà e umiltà Dio e il prossimo secondo lo spirito del Vangelo.
Contemporaneo di S Francesco d’Assisi, Lucchese verso i 30 anni si liberò di tutte le ricchezze accumulate come mercante e scelse di fare la carità. All’inizio la moglie dubitò della sua salute mentale. Una volta stava rimproverando il marito perché, per la sua mania di regalare pane a tutti, la madia era rimasta vuota. Ma aprendola di nuovo la trovò piena di pane fresco. Dopo questo miracolo anch’essa decise di seguire il marito. Perduti i due figli in tenera età, gli sposi si dedicarono a Dio e al prossimo. S.Francesco stava percorrendo le campagne italiane e molti laici gli chiedevano di seguirlo. Anche Lucchese avrebbe voluto farsi frate e Bona unirsi a S. Chiara nel convento di S. Damiano, ma Francesco, incontratili, disse: “Siete sposati e dovrete continuare a vivere insieme. Ma vi darò una regola di vita perché possiate diventare perfetti.” Li vestì lui stesso della tunica color cenere e li cinse col cordone a più nodi, dicendo: “Voi vivrete nel mondo come Frati Penitenti, ma non apparterrete al mondo: farete opere pie, digiunerete, predicherete la pace” La prima Regola dell’Ordine Francescano Secolare fu approvata nel 1223 da Papa Onorio III. S. Francesco aveva insediato alcuni frati del primo Ordine nell’eremo di S. Maria a Camaldo e il Comune gli cedette quel luogo. Dopo la morte del Santo essa fu ampliata su disegno di frate Elia e intitolata appunto a S. Francesco. Qui veniva a pregare Lucchese con la moglie e molte volte nella contemplazione il suo corpo restava sospeso in aria. Venduta nel 1227 anche la casa dotale della moglie e consegnato il denaro del ricavo all’ospedale di S. Giovanni, i due sposi ora avevano solo un misero alloggio vicino ad un campicello che Lucchese coltivava con le proprie mani, destinando i prodotti al nutrimento dei poveri. Una volta un prete che passava di lì gli chiese delle cipolle e Lucchese gliene diede così tante che gliene rimasero pochissime. Siccome il prete glielo fece osservare, Lucchese gli chiese di benedire ciò che era rimasto e l’indomani il misero mucchietto si era moltiplicato. Spesso Lucchese andava a raccogliere gli ammalati e li portava dove potevano essere curati. Una volta stava trasportando sulle proprie spalle un infermo, quando un giovane lo derise. Lucchese disse: “Porto su di me Cristo sofferente “Per punizione divina il giovane divenne muto, ma Lucchese si mise a pregare per lui e la parola gli fu restituita. Quando Lucchese stava recandosi in Maremma con un asino carico di provviste per i malati di malaria, alcuni giovinastri, avendolo visto da lontano, pensarono di derubarlo. Egli, giungendo davanti a loro, rivelò di conoscere il loro progetto, ma disse che ciò che trasportava era dei poveri e il Signore non permetteva che altri se ne appropriassero. Il 28 aprile 1260 Lucchese e Buonadonna, uniti dall’amore in terra, furono chiamati nello stesso giorno a far parte della Chiesa celeste. La moglie, inchiodata a letto dalla febbre, pregò il marito ottantenne, che già stava poco bene, di far venire il loro confessore frate ldebrando e si spensero entrambi a poche ore di distanza. Al funerale avvenne un miracolo perché, nonostante il violento acquazzone, la pioggia non bagnò né le bare, né la gente. Mentre i corpi dei due santi sposi erano esposti in chiesa ricoperti di fiori, uno della folla, chinandosi per baciare i piedi di Lucchese, di nascosto con un temperino gli recise un dito e subito dal cadavere zampillò sangue vermiglio. Il fratello di padre Ildebrando, di nome Tebaldo, era tormentato da un tumore allo stomaco, ma toccando le mani congiunte di Lucchese fu guarito. C’era un uomo poverissimo, carico di figli, che Lucchese in vita aveva protetto e ora era stato imprigionato: egli pregò il santo che aiutasse i suoi figli e subito sentì cadersi le catene ai piedi e si trovò fuori dal carcere senza che nessuno gli avesse aperta la porta. Percorse in poche ore una cinquantina di chilometri e arrivò miracolosamente a casa prima che la moglie e i figli si svegliassero. Alcune mamme per intercessione di Lucchese videro tornare in vita i loro figli, un cieco che venne ad inginocchiarsi sulla sua tomba recuperò la vista e una donna ebbe insieme alla luce degli occhi anche quella dell’anima: riconobbe i suoi peccati e si convertì. Cadde un bambino in fondo ad un pozzo e i presenti atterriti invocarono Lucchese: subito dopo videro il piccino seduto sull’acqua sostenuto dalle mani invisibili del santo. Un ragazzo che si era storto un piede, passando sulla tomba di Lucchese nella chiesa dei frati, sentì come una morsa serragli il piede e la distorsione scomparve. A Recanati era stata fatta una legge per cui chi si rendeva colpevole di omicidio doveva essere legato alla sua vittima e sepolto insieme. Ma due fratelli uscirono vivi da sotto terra, per intercessione di Lucchese da Poggibonsi. Nel 1319 fra Bartolomeo de’ Tolomei, di ritorno dal Capitolo di Marsiglia, si trovò in un vascello che stava per naufragare, ma raccomandandosi a Lucchese immediatamente la furia dei venti e del mare cessò. Nel periodo dell’accaparramento delle reliquie, sembra che i tedeschi si portassero via il corpo di Buonadonna, ma i frati fecero in tempo a staccarle un braccio e la mano sinistra. Per paura separarono la testa dal corpo di Lucchese e la conservarono in una teca. Nel 1274 Papa Gregorio X, nel recarsi al Concilio di Lione, si fermò a Poggibonsi e fece la prova del fuoco gettando la testa di Lucchese nelle fiamme di un gran braciere acceso. Ma la testa saltò fuori dal braciere e andò a posarsi sulle ginocchia del papa. Dopo questo prodigio il culto di Lucchese fu autorizzato. Nel 1581, durante i lavori di riparazione del pavimento del coro, furono ritrovate le ossa di Lucchese, il corpo fu ricomposto e deposto in un’urna sopra l’altare. Ogni anno il 28 aprile a Poggibonsi si fa una festa religiosa e popolare, la città viene benedetta dall’alto col corpo del santo patrono e la reliquia della moglie durante una processione.
Autore: Gabriella Cast.
Martirologio Romano: A Ravenna, commemorazione di san Vitale: in questo giorno, come si tramanda, sotto il suo nome fu dedicata a Dio la celebre basilica in quella città. Egli insieme ai santi martiri Valeria, Gervasio, Protasio e Ursicino è da tempo immemorabile venerato per l’impavida fede tenacemente difesa.
Santi VITALE, VALERIA e URSICINO
Vitale e Valeria, genitori dei santi Gervasio e Protasio, anch’essi martiri, sono celebrati insieme il 28 aprile. In particolare s. Vitale ha avuto, una raffigurazione nell’arte molto vasta, a lui sono dedicate la basilica di S. Vitale in Ravenna, con i suoi magnifici mosaici, la chiesa omonima a Venezia, dove è raffigurato vestito da soldato a cavallo che solleva uno stendardo, con lancia, spada e mazza, strumento del martirio della sua sposa Valeria. Ancora a lui è dedicata la chiesa di S. Vitale a Roma, con gli affreschi narranti il suo martirio.
Le prime notizie che si hanno di Vitale e Valeria provengono da un opuscolo scritto da Filippo, che si nomina ‘servus Christi’ e a cui sono intitolati i più antichi nuclei di vita cristiana a Milano, come l’hortus Philippi e la domus Philippi; detto opuscolo fu rinvenuto accanto al capo dei corpi dei martiri Gervasio e Protasio, ritrovati da s. Ambrogio nel 396.
L’opuscolo oltre a narrare il martirio dei due fratelli, descrive anche quello dei due genitori Vitale e Valeria e del medico ligure, forse operante a Ravenna Ursicino, vissuti e morti nel III secolo; Vitale è un ufficiale che ha accompagnato il giudice Paolino da Milano a Ravenna.
Scoppiata la persecuzione contro i cristiani, accompagna, incoraggiandolo Ursicino condannato a morte, il quale durante il tragitto verso il luogo dell’esecuzione, era rimasto turbato dall’orrore di trovarsi davanti alla morte violenta. Ursicino viene decapitato e decorosamente sepolto dallo stesso Vitale, dentro la città di Ravenna.
Lo stesso Vitale viene arrestato e dopo aver subito varie torture per farlo apostatare dal cristianesimo, il giudice Paolino ordina che venga gettato in una fossa profonda e ricoperto di sassi e terra; così anch’egli diventa un martire di Ravenna e il suo sepolcro nei pressi della città, diviene fonte di grazie.
La moglie Valeria avrebbe voluto riprendersi il corpo del marito, ma i cristiani di Ravenna glielo impediscono, allora cerca di ritornare a Milano, ma durante il viaggio incontra una banda di villani idolatri, che la invitano a sacrificare con loro al dio Silvano; essa rifiuta e per questo viene percossa così violentemente, che portata a Milano, muore tre giorni dopo.
I giovani figli Gervasio e Protasio, vendono tutti i loro beni, dandoli ai poveri e si dedicano alle sacre letture, alla preghiera e dieci anni dopo vengono anch’essi martirizzati; il già citato Filippo ne cura la sepoltura.
Molti studiosi ritengono che la narrazione sia in parte fantasiosa, riconoscendo nei personaggi citati, altre figure di martiri omonimi venerati sia a Milano che a Ravenna; l’antica chiesa di S. Valeria a Milano, distrutta nel 1786, per gli studiosi non era che la ‘cella memoriæ’ della primitiva area cimiteriale milanese, intitolata appunto alla gens Valeria.
In ogni modo il racconto leggendario o veritiero è documentato da celebri monumenti anche di notevole antichità. La basilica ravennate consacrata il 17 maggio 548, è dedicata oltre che a S. Vitale anche ai suoi figli Gervasio e Protasio, le cui immagini sono poste sotto la lista degli apostoli, mentre un altare laterale è dedicato a s. Ursicino.
Nei mosaici di S. Apollinare Nuovo poi sono rappresentati tutti i cinque personaggi; dall’11° al 14° posto della fila dei santi vi sono i quattro uomini e al nono posto della fila delle sante c’è Valeria.
Numerosi documenti e Martirologi li nominano durante i secoli, specie s. Vitale e s. Ursicino martiri a Ravenna. A Milano sorsero le tre chiese che data la loro vicinanza, confermarono la stretta parentela dei martiri, come era uso costruire allora, la chiesa di S. Vitale, la chiesa di S. Valeria (poi distrutta) e S. Ambrogio dove riposano i due fratelli gemelli Gervasio e Protasio.
Autore: Antonio Borrelli
Le sue reliquie sono presenti qui in questa cappellina dell’Associazione OASI CANA a Palermo.
Magenta, Milano, 4 ottobre 1922 - 28 aprile 1962
Limpida e graziosa. Così appare la dottoressa Gianna Beretta all'ingegnere Pietro Molla nei primi incontri. Si conoscono nel 1954 e si sposano a Magenta il 24 settembre 1955. Gianna, la penultima degli otto figli sopravvissuti della famiglia Beretta, nata a Magenta, è medico chirurgo nel 1949 e specialista in pediatria nel 1952. Continua però a curare tutti, specialmente chi è vecchio e solo. «Chi tocca il corpo di un paziente - diceva - tocca il corpo di Cristo». Gianna ama lo sport (sci) e la musica; dipinge, porta a teatro e ai concerti il marito, grande dirigente industriale sempre occupato. Vivono a Ponte Nuovo di Magenta, e lei arricchisce di novità gioiose anche la vita della locale Azione cattolica femminile. Nascono i figli: Pierluigi nel 1956, Maria Rita (Mariolina) nel 1957, Laura nel 1959. Settembre 1961, quarta gravidanza, ed ecco la scoperta di un fibroma all'utero, con la prospettiva di rinuncia alla maternità per non morire. Mettendo al primo posto il diritto alla vita, Gianna decide di far nascere Gianna Emanuela. La mamma morirà il 28 aprile 1962. (Avvenire)
Etimologia: Gianna = accorciativo di Giovanna; Gian- o Giam- nei nomi composti
Martirologio Romano: A Magenta in Lombardia, santa Giovanna Beretta Molla, madre di famiglia, che, portando un figlio in grembo, morì anteponendo amorevolmente la libertà e la salute del nascituro alla propria stessa vita.
La famiglia
Gianna Beretta Molla nacque a Magenta (Milano), nella casa di campagna dei nonni paterni, da genitori profondamente cristiani, entrambi Terziari francescani, il 4 ottobre 1922, festa di San Francesco d’Assisi, e l’11 ottobre, nella Basilica di San Martino, ricevette il S. Battesimo con il nome di Giovanna Francesca.
Era la decima di tredici figli, cinque dei quali morirono in tenera età e tre si consacrarono a Dio: Enrico, medico missionario cappuccino a Grajaù, in Brasile, col nome di padre Alberto; Giuseppe, sacerdote ingegnere nella diocesi di Bergamo; Virginia, medico religiosa canossiana missionaria in India.
La famiglia Beretta visse sino al 1925 a Milano, in Piazza Risorgimento n.10; durante i 18 anni della sua residenza milanese, frequentò assiduamente la Chiesa dei Padri Cappuccini in Corso Monforte.
Nel 1925, dopo che l’influenza spagnola si era portata via tre dei cinque figli che morirono in tenera età, e a seguito di un principio di tubercolosi della sorella maggiore Amalia, di sedici anni, la famiglia si trasferì a Bergamo in Borgo Canale n.1, dove l’aria di collina era più salubre.
Il papà di Gianna, Alberto, nato come lei a Magenta, era impiegato al Cotonificio Cantoni, e fece enormi sacrifici perché tutti i figli potessero studiare sino alla laurea, riducendo tutte quelle spese che riteneva essere spese inutili, come quando, di punto in bianco, smise di fumare il suo sigaro. Uomo dalla fede profonda, dalla pietà sincera, convinta e gioiosa, fu loro di grande esempio cristiano: ogni giorno si alzava alle 5 per recarsi alla S. Messa ed iniziare così, davanti al Signore e nel Suo nome, la sua giornata di lavoro. Anche la mamma, Maria De Micheli, nata a Milano, era donna dalla fede profonda, dall’ardente spirito di carità, dal carattere umile e al tempo stesso forte, fermo e deciso. Si recava anch’ella ogni giorno alla S. Messa, insieme ai suoi figlioli, dopo che il marito era partito per raggiungere con il treno, a Milano, il suo posto di lavoro. Mamma Maria si occupò di ciascun figlio come se ne avesse avuto uno solo; correggeva i suoi figlioli aiutandoli a capire i loro sbagli e talvolta bastava il solo sguardo. Fu loro sempre vicina: imparò persino il latino e il greco per seguirli meglio negli studi.
La giovinezza
Gianna, sin dalla prima giovinezza, accolse con piena adesione il dono della fede e l’educazione limpidamente cristiana che ricevette dai suoi ottimi genitori, che con vigile sapienza la accompagnarono nella crescita umana e cristiana e la portarono a considerare la vita come un dono meraviglioso di Dio, ad avere una fiducia illimitata nella Divina Provvidenza, ad essere certa della necessità e dell’efficacia della preghiera. Fu da loro educata all’essenziale, alla sensibilità verso i poveri e le missioni, secondo lo stile francescano.
Immersa in questa atmosfera familiare di grande fede e amore per il Signore, Gianna ricevette la sua Prima Comunione a soli cinque anni e mezzo, il 4 aprile 1928, nella Parrocchia Prepositurale di Santa Grata a Bergamo Alta. Da quel giorno andò con la mamma tutte le mattine alla Messa: la S. Comunione divenne “il suo cibo indispensabile di ogni giorno”, sostegno e luce della sua fanciullezza, adolescenza e giovinezza. Il 9 giugno 1930 ricevette la S. Cresima nel Duomo di Bergamo.
Crebbe serena, prodigandosi per i fratelli e le sorelle, senza mai stare in ozio: amava tutte le cose belle, la musica, la pittura, le gite in montagna.
In quegli anni non le mancarono prove, sofferenze e difficoltà, che però non produssero traumi o squilibri in Gianna, data la ricchezza e la profondità della sua vita spirituale, ma anzi ne affinarono la sensibilità e ne potenziarono la virtù.
Nel gennaio 1937 morì la sua carissima sorella Amalia, all’età di 26 anni, e la famiglia si trasferì a Genova Quinto al Mare, città che era anche sede universitaria e favoriva, così, lo stare tutti insieme, come era sempre stato desiderio di papà Alberto. Qui Gianna si iscrisse alla 5ª ginnasio presso l’Istituto delle Suore Dorotee.
Negli anni della residenza genovese, Gianna maturò profondamente la sua vita spirituale.
Durante un corso di S. Esercizi Spirituali, predicato per le alunne della scuola delle Suore Dorotee dal Padre Gesuita Michele Avedano nei giorni 16-18 marzo 1938, Gianna, a soli quindici anni e mezzo, fece l’esperienza fondamentale e decisiva della sua vita. Di questi Esercizi è rimasto il quadernetto, di trenta paginette, di Ricordi e Preghiere di Gianna, tra i cui propositi si legge: “Voglio temere il peccato mortale come se fosse un serpente; e ripeto di nuovo: mille volte morire piuttosto che offendere il Signore”. E tra le sue preghiere: “O Gesù ti prometto di sottomettermi a tutto ciò che permetterai mi accada, fammi solo conoscere la tua Volontà…”.
Contribuì in modo determinante a far maturare in pienezza il cammino spirituale di Gianna anche l’azione pastorale dell’ottimo Parroco di Quinto al Mare, il noto liturgista Mons. Mario Righetti: egli, che divenne suo direttore spirituale, l’ebbe attiva collaboratrice nell’Azione Cattolica come delegata delle Piccolissime, e le inculcò l’amore alla liturgia, che fu per lei una fonte di vita spirituale; proprio a Genova ella acquistò il messale quotidiano del Caronti, che usò ogni giorno.
Finita la quinta ginnasiale, i genitori di Gianna credettero bene farle sospendere le scuole per un anno affinchè rinforzasse la sua delicata costituzione, e lei si sottomise docilmente, passando così un anno in dolce compagnia dei genitori, contenta di avere l’occasione di conoscerli maggiormente per poter poi imitare sempre più le loro virtù.
Nell’ottobre 1939 riprese gli studi, frequentando il liceo classico nell’Istituto delle Suore Dorotee di Lido d’Albaro.
I bombardamenti su Genova provarono molto mamma Maria, già debole di cuore, e così la famiglia, nell’ottobre 1941, ritornò a Bergamo, nella casa dei nonni materni a San Vigilio.
Fu qui che Gianna, proprio nell’anno della maturità classica, perse entrambi i genitori, a poco più di quattro mesi di distanza l’una dall’altro, prima la mamma, il 29 aprile 1942, all’età di 55 anni, e poi il papà, il 10 settembre, all’età di 60 anni.
La maturità
Dopo la morte dei genitori, nell’ottobre 1942 Gianna ritornò, con tutti i fratelli e le sorelle, a Magenta, nella casa dove era nata.
Nel novembre dello stesso anno si iscrisse e frequentò la Facoltà di Medicina e Chirurgia, prima a Milano e poi a Pavia, dove si laureò il 30 novembre 1949.
Negli anni dell’università fu giovane dolce, volitiva e riservata, e andò sempre più affinando la sua spiritualità: quotidianamente ella partecipava alla S. Messa e alla S. Comunione, nel Santuario dell’Assunta nei giorni feriali, faceva la Visita al SS. Sacramento e la meditazione, recitava il S. Rosario.
Furono questi gli anni in cui, insieme alle sorelle Zita e Virginia, Gianna si inserì nella vita della comunità parrocchiale di San Martino, offrendo la propria collaborazione al Parroco, Mons. Luigi Crespi, e lavorando intensamente nell’educazione della gioventù nell’Oratorio delle Madri Canossiane, che divenne la sua seconda casa.
Mentre si dedicava con diligenza agli studi di medicina, tradusse la sua grande fede in un impegno generoso di apostolato tra le giovani nell’Azione Cattolica e di carità verso i vecchi e i bisognosi nelle Conferenze delle Dame di San Vincenzo, sapendo che “a Dio piace chi dona con entusiasmo” (2 Cor. 9,7): amava Dio e desiderava e voleva che molti lo amassero.
L’impressione che lasciava è riassunta da una sua compagna di liceo: “Gianna donava il suo sorriso aperto, pieno di dolcezza e di calma, riflesso della gioia serena e profonda dell’anima in pace”.
Dopo la laurea in Medicina, il 1 luglio 1950 Gianna aprì un ambulatorio medico INAM a Mesero, mentre a Magenta continuò a sostituire, al bisogno, il fratello medico Ferdinando.
Si specializzò in Pediatria a Milano il 7 luglio 1952, e predilesse, tra i suoi assistiti, poveri, mamme, bambini e vecchi.
Mentre compiva la sua opera di medico, che sentiva e praticava come una missione, premurosa di aggiornare la sua competenza e di giovare al corpo e all’anima della sua gente, accrebbe il suo impegno generoso nell’Azione Cattolica, prodigandosi per le “giovanissime”, e, al tempo stesso, continuò a sfogare con la musica, la pittura, lo sci e l’alpinismo la sua grande gioia di vivere e di godersi l’incanto del creato.
Si interrogava, pregando e facendo pregare, sulla sua vocazione, che considerava anch’essa un dono di Dio, perché: “Dal seguire bene la nostra vocazione dipende la nostra felicità terrena ed eterna.”
Le lettere del fratello padre Alberto, che parlavano del lavoro cui doveva far fronte da solo ogni giorno, maturarono in lei la specifica vocazione missionaria e la decisione di raggiungerlo a Grajaù per aiutarlo. Ma la sua costituzione fisica non era robusta, e il suo direttore spirituale riuscì a convincerla che questa non era la sua strada. Gianna si rasserenò e attese che il Signore le desse un segno.
L’8 dicembre 1954, in occasione della celebrazione della Prima Messa di padre Lino Garavaglia da Mesero, Gianna ebbe il suo primo incontro ufficiale con l’uomo della sua vita, l’ingegner Pietro Molla, dirigente della S.A.F.F.A., la famosa fabbrica di fiammiferi di Magenta, appartenente egli pure all’Azione Cattolica e laico impegnato nella sua parrocchia di Mesero; Gianna e Pietro erano stati entrambi invitati da padre Lino Garavaglia.
Il fidanzamento e il matrimonio
Il fidanzamento ufficiale si tenne l’11 aprile 1955, lunedì di Pasqua, con la S. Messa celebrata da Don Giuseppe, fratello di Gianna, nella Cappella delle Madri Canossiane a Magenta.
Gianna e Pietro vissero il loro amore alla luce della fede. “Carissimo Pietro…”, gli scrisse Gianna nella sua prima lettera, il 21 febbraio 1955, “ora ci sei tu, a cui già voglio bene ed intendo donarmi per formare una famiglia veramente cristiana.” “Ti amo tanto tanto, Pietro, - gli scrisse il 10 giugno 1955 - e mi sei sempre presente, cominciando dal mattino quando, durante la S. Messa, all’Offertorio, offro, con il mio, il tuo lavoro, le tue gioie, le tue sofferenze, e poi durante tutta la giornata fino alla sera”.
Gianna godette il periodo del fidanzamento, radiosa nella gioia e nel sorriso. Ringraziava e pregava il Signore. Era chiarissima nei suoi propositi e nelle progettazioni della nuova famiglia, e, al tempo stesso, era meravigliosa nel trasmettere a Pietro la sua grande gioia di vivere, nel chiedergli come doveva essere e ciò che doveva fare per renderlo felice, nell’invitarlo a ringraziare con lei il Signore per il dono della vita e di tutte le cose belle.
Si preparò spiritualmente a ricevere il “Sacramento dell’Amore” con un triduo, S. Messa e S. Comunione, che propose anche al futuro marito: Pietro nella Chiesetta della Madonna del Buon Consiglio a Ponte Nuovo, lei nel Santuario dell’Assunta a Magenta. Pietro ringraziò Gianna del santo pensiero del Triduo, e lo accolse con tutto l’entusiasmo.
Gianna e Pietro si unirono in matrimonio il 24 settembre 1955, nella Basilica di San Martino a Magenta. Si stabilirono a Ponte Nuovo, nell’accogliente villetta riservata alla famiglia del Direttore degli Stabilimenti S.A.F.F.A., a pochi metri di distanza dalla Chiesetta della Madonna del Buon Consiglio, dove Gianna si recò quotidianamente a pregare e a partecipare alla S. Messa.
Nella piccola frazione di Ponte Nuovo Gianna, dal 1956, svolse con dedizione il compito di responsabile del Consultorio delle mamme e dell’Asilo nido facenti capo all’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (O.N.M.I.), e prestò assistenza medica volontaria nelle Scuole Materna ed Elementare di Stato.
Fu moglie felice, e il Signore presto esaudì il suo grande desiderio di diventare mamma più che felice di tanti bambini: il 19 novembre 1956 nacque Pierluigi, l’11 dicembre 1957 Maria Zita (Mariolina) e il 15 luglio 1959 Laura, tutti e tre nati nella casa di Ponte Nuovo.
Gianna seppe armonizzare, con semplicità ed equilibrio, i suoi doveri di madre, di moglie, di medico a Mesero e a Ponte Nuovo, e la sua grande gioia di vivere.
In questa armonia, continuò a vivere la sua grande fede, conformando ad essa il suo operare e ogni sua decisione, con coerenza e gioia.
Nella comunione di vita e d’amore della famiglia, che la nascita dei figli aveva reso ancora più ampia ed impegnativa, Gianna si sentì sempre pienamente appagata.
Il mistero del dolore e la fiducia nella Provvidenza
Nel settembre 1961, verso il termine del secondo mese di una nuova gravidanza, Gianna fu raggiunta dalla sofferenza e dal mistero del dolore: si presentò un voluminoso fibroma, tumore benigno, all’utero. Prima dell’intervento operatorio di asportazione del fibroma, eseguito nell’Ospedale San Gerardo di Monza, pur ben sapendo il rischio che avrebbe comportato il continuare la gravidanza, supplicò il chirurgo di salvare la vita che portava in grembo e si affidò alla preghiera e alla Provvidenza. La vita fu salva. Gianna ringraziò il Signore e trascorse i sette mesi che la separavano dal parto con impareggiabile forza d’animo e con immutato impegno di madre e di medico. Trepidava e temeva anche che la creatura che portava in grembo potesse nascere sofferente e pregava Dio che così non fosse.
Alcuni giorni prima del parto, pur confidando sempre nella Provvidenza, era pronta a donare la sua vita per salvare quella della sua creatura. “Mi disse esplicitamente” - ricorda il marito Pietro - “con tono fermo e al tempo stesso sereno, con uno sguardo profondo che non dimenticherò mai: Se dovete decidere fra me e il bimbo, nessuna esitazione: scegliete - e lo esigo - il bimbo. Salvate lui”.
Pietro, che conosceva benissimo la generosità di Gianna, il suo spirito di sacrificio, la ponderatezza e la forza delle sue scelte e delle sue decisioni, si sentì nell’obbligo di coscienza di doverle rispettare, anche se potevano avere conseguenze estremamente dolorose per lui e per i loro figli.
Per Gianna la creaturina che portava in grembo aveva gli stessi diritti alla vita di Pierluigi, Mariolina e Laura, e lei sola, in quel momento, rappresentava, per la creaturina stessa, lo strumento della Provvidenza per poter venire al mondo; per gli altri figli, la loro educazione e la loro crescita, ella faceva pieno affidamento sulla Provvidenza attraverso i congiunti.
La scelta di Gianna fu dettata dalla sua coscienza di madre e di medico e può essere ben compresa solo alla luce della sua grande fede, della sua ferma convinzione del diritto sacro alla vita, dell’eroismo dell’amore materno e della piena fiducia nella Provvidenza.
Il sacrificio e il dono della vita
Nel pomeriggio del 20 aprile 1962, Venerdì Santo, Gianna fu nuovamente ricoverata nell’Ospedale S. Gerardo di Monza, dove le fu provocato il parto, per espletarlo per vie naturali, ritenuta la via meno rischiosa, senza esito favorevole.
Il mattino del 21 aprile, Sabato Santo, diede alla luce Gianna Emanuela, per via cesarea, e per Gianna iniziò il calvario della sua passione, che si accompagnò a quella del suo Gesù sul Monte Calvario.
Già dopo qualche ora dal parto le condizioni generali di Gianna si aggravarono: febbre, sempre più elevata, e sofferenze addominali atroci per il subentrare di una peritonite settica.
“Gianna”, ricorda la sorella Madre Virginia, che, rientrata inspiegabilmente e provvidenzialmente dall’India potè assisterla nella sua agonia, “solo raramente svelava le sue sofferenze. Ha rifiutato ogni calmante per essere sempre consapevole di quanto avveniva e presente a se stessa. Non solo, ma per essere lucida nel suo rapporto con il suo Gesù, che costantemente invocava”. “Sapessi quale conforto ho ricevuto baciando il tuo Crocifisso!”, le disse Gianna, “Oh, se non ci fosse Gesù che ci consola in certi momenti!…”.
“Attingeva la forza del suo saper soffrire”, ricorda ancora Madre Virginia, “dalla preghiera intima manifestata in brevi espressioni di amore e di offerta: “Gesù ti amo” – “Gesù ti adoro” – “Gesù aiutami” – “Mamma aiutami” – “Maria…”, seguite da silenziose riflessioni”.
Nonostante tutte le cure praticate, le sue condizioni peggiorarono di giorno in giorno.
Desiderò ricevere Gesù Eucaristico anche giovedì e venerdì: causa l’incoercibile vomito, con suo grande rincrescimento, per non mancare di rispetto al Signore, si accontentò di ricevere sulle labbra una minima parte dell’Ostia.
Il fratello Ferdinando aveva accettato da Gianna l’incarico di avvisarla quando fosse giunto il momento della sua morte con una frase stabilita. Ferdinando non ebbe il coraggio di eseguirlo: ne incaricò Madre Virginia, che, al momento opportuno, disse a Gianna: “Coraggio, Gianna, Papà e Mamma sono in Cielo che ti aspettano: sei contenta di andarvi?” “Nel movimento del suo ciglio”, ricorda Madre Virginia, “si potè leggere la sua completa e amorevole adesione alla Volontà Divina, anche se velata dalla pena di dover lasciare i suoi amati figli ancor tanto piccoli. Gianna, come il suo Gesù, si consegnò al Padre”.
All’alba del 28 aprile, Sabato in Albis, venne riportata, come da suo desiderio precedentemente espresso al marito Pietro, nella sua casa di Ponte Nuovo, dove morì alle ore 8 del mattino. Aveva solo 39 anni.
I suoi funerali, celebrati nella Chiesetta di Ponte Nuovo, furono una grande manifestazione unanime di profonda commozione, di fede e di preghiera.
Fu sepolta nel Cimitero di Mesero, dove riposa tuttora nella Cappella di famiglia, mentre rapidamente si diffuse la fama di santità per la sua vita e per il gesto di amore grande, incommensurabile, che l’aveva coronata.
Fonte: www.giannaberettamolla.org
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Estremamente limpida, estremamente graziosa. Così appare la dottoressa Gianna Beretta all’ingegnere Pietro Molla nei primi incontri. Si conoscono nel 1954 e si sposano a Magenta il 24 settembre 1955. Nella famiglia di lei, i Beretta milanesi, i 13 figli erano stati ridotti a otto dall’epidemia di “spagnola” dopo la guerra 1915/18 e da due morti nella prima infanzia. Dagli otto vengono fuori una pianista, due ingegneri, quattro medici e una farmacista. Uno degli ingegneri, Giuseppe, si fa poi sacerdote; e due dei medici diventeranno religiosi: Madre Virginia e Padre Alberto, missionari.
Gianna, la penultima degli otto, nata nella casa dei nonni a Magenta, è medico chirurgo nel 1949 e specialista in pediatria nel 1952. Continua però a curare tutti, specialmente chi è vecchio e solo. Medico a 360 gradi. Per lei tutto è dovere, tutto è sacro: "Chi tocca il corpo di un paziente", dice, "tocca il corpo di Cristo". I coniugi vivono la robusta tradizione religiosa familiare (Messa e preghiera quotidiana, vita eucaristica) inserendola felicemente nella modernità. Gianna ama lo sport (sci) e la musica; dipinge, porta a teatro e ai concerti il marito, grande dirigente industriale sempre occupato. Vivono a Ponte Nuovo di Magenta, e lei arricchisce di novità gioiose anche la vita della locale Azione cattolica femminile: i “ritiri” sono momenti di forte interiorità, e lei vi aggiunge occasioni continue di festa: è davvero la collaboratrice della loro gioia. Vive questo incarico come la missione di medico: dopo la sua morte, il marito leggerà gli appunti con cui lei preparava gli incontri, scoprendovi "una connessione indissolubile tra amore e sacrificio".
Nascono i figli: Pierluigi nel 1956, Maria Rita (Mariolina) nel 1957, Laura nel 1959. Settembre 1961, quarta gravidanza, ed ecco la scoperta di un fibroma all’utero, ecco l’ospedale, la gravità sempre più evidente del caso, la prospettiva di rinuncia alla maternità per non morire. E per non lasciare soli tre orfani. Ma Gianna ha la sua gerarchia di valori, che colloca al primo posto il diritto a nascere. E così decide: a prezzo della sua vita e del dolore dei suoi, a dispetto di tutto, Gianna Emanuela nasce, e sua madre può ancora tenerla tra le braccia, prima di morire il 28 aprile 1962. Una morte che è un messaggio luminoso d’amore. Ma ogni giorno della sua esistenza era stato già vissuto da Gianna nella luce. Proclamandola beata in Roma il 24 aprile 1994, Giovanni Paolo II ha voluto esaltare, insieme all’eroismo finale, la sua esistenza intera, l’insegnamento di tutta una vita. Così parla per lei Gianna Emanuela, la figlia nata dal suo sacrificio: "Sento in me la forza e il coraggio di vivere, sento che la vita mi sorride". E vuole rendere onore alla mamma, "dedicando la mia vita alla cura e all’assistenza agli anziani".
E' stata proclamata santa da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
Gusan, Corea del Sud, 1795 – Tangkogae, Corea del Sud, 29 aprile 1841
Martirologio Romano: A Seul in Corea, sant’Antonio Kim Song-u, martire, che era solito radunare in casa sua molti fedeli e fu strangolato in carcere per Cristo.
Antonio Kim Sŏng-u, convertitosi al cattolicesimo, decise di accogliere in casa sua i fedeli che non avevano un luogo dove radunarsi, affinché la lettura della Sacra Scrittura e la preghiera comune potesse sostenerli durante la persecuzione, scatenatasi a partire dall’editto del 1802 ed esplosa definitivamente nel 1839. In quell’anno il fratello di Antonio, Giuseppe Chang Sŏng-jib, di professione farmacista, aveva subito il martirio.
La stessa sorte, due anni dopo, toccò a lui: arrestato e gettato in carcere, vi fu ucciso per strangolamento il 29 aprile 1841, senza ricevere un regolare processo. Aveva quarantasei anni.
Insieme a suo fratello Giuseppe, Carlo è stato incluso nel gruppo dei martiri coreani capeggiati da Andrea Kim Taegon, beatificati il 5 luglio 1925 e, inseriti in un gruppo più ampio, canonizzati il 6 maggio 1984.
Autore: Emilia Flocchini
Beata Rosamunda, madre di S. Adiutore
Rosamunda di Blar, sposa di Giovanni, signore di Vernon, fu madre di s. Adiutore al quale dette un’accurata educazione cristiana. Non fa meraviglia quindi se fu presto onorata come beata e commemorata al 30 aprile insieme al figlio nelle diocesi di Chartres, Evreux e Rouen.
Autore: Gérard Mathon Fonte:Enciclopedia dei Santi
Beata Maria dell'incarnazione, sposa, madre, contemplativa e, intorno al 1.600, donna manager!
Tours (Francia), 28 ottobre 1599 – Quebec (Canada), 30 aprile 1672
Martirologio Romano: Nel Québec in Canada, beata Maria dell’Incarnazione Guyart Martin, che, madre di famiglia, dopo la morte del marito affidò il figlioletto alle cure della sorella e, fatta la professione religiosa tra le Orsoline, aprì una loro casa in Canada, compiendo molte opere insigni.
Maria Guyart nacque a Tours in Francia il 28 ottobre 1599, i genitori Fiorenzo Guyart e Giovanna Michelet erano panettieri, e educarono la figlia ad una vita austera e cristiana.
Pur avendo avuto già da piccola esperienze mistiche, verso i quindici anni, era il 1614, avvertì la vocazione religiosa; ma secondo le consuetudini del tempo, il padre scelse per lei il matrimonio e in obbedienza alla volontà paterna, Maria accettò.
Quindi nel 1617 a 18 anni, sposò Claudio Martin piccolo proprietario di un setificio; dopo due anni il 2 aprile 1619 nacque il figlio Claudio, ma la serenità della famiglia durò poco, perché il 10 ottobre dello stesso 1619 rimase vedova e a 20 anni si trovò gravata dei debiti della piccola azienda e coinvolta in alcuni processi.
Costretta dalla situazione, per i successivi dieci anni Maria Guyart, si dedicò all’educazione del figlio e con coraggio prese in mano gli affari aziendali, sbrigandoli con grande responsabilità.
Presa da queste occupazioni, rifiutò le seconde nozze, orientandosi verso una vita di contemplazione nell’attività, che la fa collocare fra le grandi mistiche della Chiesa. Nel 1620 ebbe una “visione del sangue”, che ella chiamò la sua conversione, alle quali seguirono tre visioni trinitarie; l’anno successivo fece il voto di castità, nel contempo un suo cognato Paolo Buisson la invitò ad aiutarlo nel suo lavoro.
Inizialmente s’interessò di sbrigare tutte le faccende di casa, finché nel 1625 le fu affidata l’amministrazione generale dell’impresa di trasporti del cognato. Siamo nel XVII secolo e ci sembra quasi da non credere che una donna di circa 26-27 anni, vedova con un figlio, fosse a capo di aziende sia pure modeste, in un contesto storico sociale che emarginava in genere la donna e poi nel difficile ambiente di un porto fluviale sulla Loira; comunque Maria pur impegnatissima nelle sue multiformi attività, mantenne sempre una stretta visione con Dio, in una vita attiva-contemplativa.
Dal 1624 in poi, ebbe varie intense visioni di Cristo, estasi che la facevano sentire perduta in un oceano d’amore; e fu in questo periodo che si fece sempre più struggente in lei, il desiderio di consacrarsi totalmente a Dio, guidata spiritualmente dal religioso Raimondo di san Bernardo, fogliantino (Cistercensi riformati nel 1577 da Jean de La Barrière, abate di Feuillant, Ordine poi soppresso dalla Rivoluzione Francese).
Indecisa fra le Carmelitane e le Cistercensi riformate (Fogliantine), alla fine scelse le Orsoline di Tours, fra le quali entrò il 21 gennaio 1631; fu accompagnata alla porta del monastero dal figlio, il quale fu affidato alla sorella, dopo aver resistito ad accondiscendere alla decisione della madre, da lui ritenuta troppo grave.
In seguito lui stesso diverrà benedettino e sarà il primo biografo della madre, essendo quello che più di tutti ne aveva conosciuto il misticismo e le virtù.
Maria Guyart, vedova Martin prese il velo il 25 marzo 1631, cambiando il nome in Maria dell’Incarnazione e dopo aver fatto il noviziato, emise la professione religiosa il 25 gennaio 1633. Intanto nel maggio 1631 ebbe la terza visione della Trinità, sentendosi rapire in Essa, ma la sua vita non fu solo visioni ed estasi, perché sentì che Dio l’avvolgeva di tenebre e aridità; assillata da oscurità spirituali e tentazioni, mantenne ugualmente in quella che i mistici chiamano “la notte dello spirito”, l’unione con Dio, con il dono della comprensione della Sacra Scrittura che ha dell’eccezionale.
Divenne ben presto Maestra delle Novizie; il periodo in cui visse come suora, vide il cattolicesimo impegnato in una fase di rinnovamento; nel 1622 papa Gregorio XV aveva istituito la Congregazione di ‘Propaganda Fide’ per aiutare i tanti missionari che partivano per le terre lontane, specie del Nuovo Mondo americano, e in questa atmosfera Maria maturò ancor di più la sua vocazione missionaria; il suo corpo era nel monastero, ma il suo spirito volava lontano.
Intraprese una corrispondenza con i missionari gesuiti del Canada; nel 1639 si mise in contatto con Madame de la Peltrie, una vedova di Alençon, che intendeva fondare nel Quebec un convento per l’educazione delle bambine indiane.
Appena la vide, Maria dell’Incarnazione riconobbe in lei la persona vista in un suo sogno e il 22 febbraio 1639 lasciò Tours per Parigi, con la compagnia della giovane suora Maria di S. Giuseppe, rimanendovi due mesi per sbrigare i preparativi della fondazione.
Il 4 maggio 1639 partì da Dieppe, insieme a tre agostiniane ospedaliere, imbarcata sulla nave “Saint Joseph” per l’America del Nord, dove sbarcò il 1° agosto 1639. Subito suor Maria si stabilì a Québec e vi costruì un convento e quando questo fu distrutto da un incendio, ne costruì un altro più grande; nel contempo arrivarono altre suore e ben presto fu costretta a scrivere nuove Regole e Costituzioni, adatte alle nuove esperienze ed esigenze.
Senza mai uscire dal convento imparò i dialetti degli indiani Algonchini, Montagnesi e Uroni e per loro scrisse catechismi, grammatiche e dizionari, occupandosi nel contempo dei bambini indiani, ai quali forniva nutrimento, assistenza ed educazione.
Era l’angelo custode dei missionari, che accompagnava con la sua preghiera e tramite la corrispondenza epistolare interessava quanti più poteva, all’ideale e necessità missionarie. In quegli anni dal 1642 al 1649 subirono il martirio in Canada, ben otto missionari gesuiti (Isacco Jogues, ecc.) e Maria dell’Incarnazione, fu invitata visto il pericolo, a ritornare in Francia, ma lei non volle abbandonare il suo “centro” come definiva il Canada; anzi nel maggio del 1653 fu ispirata ad offrirsi in olocausto a Dio per il bene di quella terra.
Continuò intrepidamente ad avere una vita contemplativa e attiva, con semplicità ed equilibrio, finché nel 1669 fu liberata dalla responsabilità di Superiora, a causa delle malferme condizioni di salute, che continuarono ad aggravarsi e il 30 aprile 1672 morì a Québec, lasciando una Comunità di una trentina di suore, dalle quali sarebbero derivate le “Orsoline del Canada”.
Le sue spoglie riposano nell’Oratorio accanto alla Cappella delle Orsoline di Québec; per il suo ruolo di maestra di vita spirituale e di promotrice di opere evangeliche, gode di tale stima nella storia canadese, da essere considerata la ‘madre’ della Chiesa Cattolica del Canada.
Madre Maria dell’Incarnazione Guyart fu beatificata da papa Giovanni Paolo II il 22 giugno 1980.
Autore: Antonio Borrelli
Un tribuno romano martire, San Quirino, che fu convertito dalla testimonianza dei martiri
Roma, III sec. ca.
Era un tribuno romano al quale furono affidati i martiri Alessandro, Evenzio e Teodulo, arrestati per ordine dell'imperatore Traiano (53-117); si convertì dopo aver visto i miracoli da loro operati e fu battezzato insieme con la figlia Balbina, in seguito subì egli stesso il martirio, venendo decapitato un 30 marzo di un anno dell'inizio del III secolo; il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Pretestato sulla via Appia. Un'epigrafe funeraria del secolo V ritrovata nel cimitero, riporta il suo nome. Le reliquie del santo tribuno martire, ebbero una storia a parte, come del resto quelle di tanti martiri delle catacombe romane, che furono inviate in celebri monasteri e chiese di tutt'Europa. Secondo un documento redatto a Colonia nel 1485, il suo corpo sarebbe stato donato nel 1050 dal papa Leone IX ad una badessa di nome Gepa, la quale le trasferì a Neuss sul Reno in Germania. Ancora oggi le reliquie si venerano nella cattedrale di San Quirino (1206) di questa città. Il suo culto ebbe il maggior picco nel 1471, durante l'assedio che Neuss subì; da questa città il culto si diffuse in tutta la Germania specie a Colonia, in Belgio e in Italia. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Pretestato sulla via Appia, san Quirino, martire, che, tribuno, coronò con il martirio la sua testimonianza di fede.
Al 30 aprile il ‘Martyrologium Romanum’ riporta “Item Romae in coemetério Praetextáti via Appia, sancti Quirini mártyris, qui tribúnus confessiónem fídei martyrio coronávit”.
Si tratta di un tribuno romano al quale furono affidati i martiri Alessandro, Evenzio e Teodulo, arrestati per ordine dell’imperatore Traiano (53-117); si convertì dopo aver visto i miracoli da loro operati e fu battezzato insieme con la figlia Balbina, in seguito subì egli stesso il martirio, venendo decapitato un 30 marzo di un anno d’inizio del III secolo; il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Pretestato sulla via Appia.
Un’epigrafe funeraria del secolo V ritrovata nel cimitero, riporta il suo nome, come pure è ricordato fra i sepolti della “spelonca magna” del cimitero di Pretestato dagli “Itinerari” del secolo VII.
A causa di alcuni errori fatti dal Martirologio Geronimiano e trasmessi nei ‘Martirologi’ successivi, la sua celebrazione divenne altalenante fra il 30 marzo e il 30 aprile (data quest’ultima fissata nell’odierna edizione del ‘Martirologio Romano’ a cui bisogna attenersi).
Le reliquie del santo tribuno martire, ebbero una storia a parte, come del resto quelle di tanti martiri delle catacombe romane, che furono inviate in celebri monasteri e chiese di tutt’Europa.
Secondo un documento redatto a Colonia nel 1485, il suo corpo sarebbe stato donato nel 1050 dal papa Leone IX ad una badessa di nome Gepa (si dice sorella del papa), la quale le trasferì a Neuss sul Reno in Germania.
Ancora oggi le reliquie si venerano nella cattedrale di S. Quirino (1206) di questa città, in cui è venerato come patrono principale il 30 marzo e il 30 aprile.
Il suo culto ebbe il maggior picco nel 1471, durante l’assedio che Neuss subì; da questa città il culto si diffuse in tutta la Germania specie a Colonia, in Belgio e in Italia dove è patrono di Correggio.
A lui sono intitolati pozzi, fonti di acque e una speciale cavalcata “Quirino Ritt”; è invocato contro la peste, vaiolo, gotta; protegge gli animali. Nell’arte è rappresentato come un cavaliere con lancia, spada, falco e uno scudo a nove punte, alludendo allo stemma della città di Neuss.
Autore: Antonio Borrelli
Thurgan (Svevia), sec. VIII – Metz, 30 aprile 783
Uno storico del IX secolo la classifica come “nobilissimam piissimamque reginam” (nobilissima piissima regina).
Discendente da Goffredo duca di Allemagna e dell’alta nobiltà sveva, Hildegarda era figlia di Pabo conte del Thurgan (altri testi dicono di Ildebrando conte di Svevia).
Era ancora un’adolescente quando Carlomagno, re dei Franchi, nel 771 la prese in sposa, subito dopo aver rotto il suo terzo matrimonio con la figlia di Desiderio re dei Longobardi, che d’altra parte non era approvato dal papa Stefano IV (768-772).
Fu esemplare nella vita cristiana, sia in famiglia che nella corte, ebbe nove figli dei quali tre morirono in tenera età; fu fedele compagna di Carlomagno, che accompagnò sempre nei suoi viaggi arrivando fino a Roma; risulta che fece una cospicua donazione all’abbazia di Saint-Arnoul di Metz, dove secondo la sua volontà fu sepolta alla sua morte, avvenuta il 30 aprile 783 a Metz, quando aveva circa trent’anni.
L’epitaffio sulla sua tomba, composto da Paolo Diacono (720-799), monaco benedettino, profondo conoscitore della storia di Metz, ne esalta la singolare bellezza della sua persona e soprattutto della sua anima.
Parte delle sue reliquie furono trasferite nell’872 nell’abbazia di Kempten, sull’Iller in Svevia, posta tra il lago di Costanza e Monaco, i cui monaci la consideravano come loro fondatrice.
Nel 963 si procedette all’elevazione delle reliquie e da allora fu onorata come beata. Una nuova ‘Vita’ della beata Hildegarda fu compilata nel 1472 per disposizione di Giovanni di Werdenau, abate di Kempten e dedicata anche al figlio della regina l’imperatore Ludovico il Pio († 840), essa esalta la virtù della sovrana, narra della costruzione di vari monasteri, della sua predilezione per l’abbazia di Kempten, dove aveva fatto deporre le reliquie dei martiri Gordiano ed Epimaco e racconta delle numerose guarigioni verificatesi sulla sua tomba.
La festa si celebra il 30 aprile.
Autore: Antonio Borrelli